Tutte le strade portano al Genoa

Daniele De Rossi è sempre stato un profluvio di emozioni manifeste. Di tutte le possibili emozioni che si possono manifestare. Un’eruzione continua di sentimenti totalizzanti e spesso anche contrastanti; una perenne e quasi necessaria rivelazione al mondo di sé stesso, dei tanti sé stesso; un urlo reiterato di giubilo e sconforto alla vita, ovviamente con la vena gonfia, la faccia paonazza, la maglia che si strappa e i pugni che battono contro un vetro. Daniele De Rossi, se ci pensate bene, è sempre stato un supereroe e il suo stesso antagonista nella medesima scena. È Superman che mangia la kryptonite, è Jean Valjean che si confonde col commissario Javert, è la pioggia che si sposa col sole e crea la meraviglia dell’arcobaleno, è una mano che, a seconda delle necessità o semplicemente di come gira il mondo, può “esse fero o esse piuma”. Come successo, ad esempio, prima a Kaiserslautern e poi a Berlino, in quei 22 giorni che separarono l’allora giovanissimo centrocampista della Roma dalla gomitata a McBride al rigore segnato nella notte che ci regalò il quarto Mondiale. Capitano senza quasi esserlo mai stato pur essendolo stato da sempre, sin dal primo momento in cui ha messo piede in campo; campione acclarato senza poter dire però di esserlo diventato con la sua amata Roma; leader rumoroso e oltremodo intelligente allo stesso tempo ; eroe e simbolo di un popolo nel quale si è sempre identificato indissolubilmente ma col quale, negli anni centrali della sua carriera, ha dovuto combattere e vincere una guerra certamente civile, in tutti i sensi. Daniele De Rossi è anche un parlatore, un formidabile parlatore, un loquace e forse a volte troppo prolisso parlatore; spiega nel particolare le cose che dice e pensa, si sofferma su dettagli e aneddoti che molti altri allenatori non rivelerebbero, con una lucidità e una sagacia che raramente si è vista in un calciatore o ex che sia. Nonostante tutti i suoi tanti sbagli. Che però, alla fine, proprio come le sue emozioni e le sue parole, per forza di cose devono uscire fuori. Senza paura, senza remore, senza dietrologie. Come ha descritto un collega che è riuscito a definirlo e inquadrarlo sicuramente meglio di chi ci sta provando in queste righe, ovvero Tonino Cagnucci ne Il Mare di Roma, “De Rossi diventa il mare. Sale, s’ingrossa, cresce, tracima, straripa, dilaga, inonda, fuoriesce”. Ma poi, aggiungiamo noi, sa tornare anche calmo e accogliente, ammiccare al bagnante che entra in acqua col materassino e rilassarsi guardando il sole calare all’orizzonte. Il mare, per l’appunto. Il mare di Roma, ovvero quella Ostia, nella quale il piccolo Daniele è nato appena 77 giorni dopo che la sua futura sposa, la Roma guidata allora da Liedholm, vincesse il suo secondo scudetto, quello del 1983, a Genova, guarda un po’ proprio contro il Genoa. Quello stesso mare che simbolicamente De Rossi ha solcato in queste ore e che, dopo essere passato per Roma, o meglio per Ostia, lo ha condotto verso nord, costeggiando prima la Toscana e piegando poi verso ovest fino a quel porto che nel febbraio del 1893 accolse un allora sconosciuto console britannico, Charles Alfred Payton, eletto dopo soli sette mesi come primo presidente del Genoa Cricket and Athletic Club. Oggi, invece, quel porto ha metaforicamente accolto un nuovo allenatore, che sembra essere arrivato nel capoluogo ligure come trascinato da un destino ineluttabile fatto di foto atti e memorie, che racchiudono in una cornice quasi perfetta la natura di un uomo composto da impulsi e reazioni, che vive con la stessa intensità nell’estasi e nello sconforto, che si ciba di tutte le contrasranti emozioni che costruiscono l’esperienza e dunque l’identità e che porta con sé l’eterno alternarsi delle fasi di una vita, così opposte come quelle di un mare calmo e uno in tempesta. Proprio a Genova, proprio a Marassi, il suo prossimo stadio, De Rossi ha infatti consumato gli ultimi due atti simbolicamente più importanti, ovviamente dai sentimenti opposti, nei confronti dell’unico ed eterno amore della sua vita, la Roma. L’ultimo dolce bacio e l’ultimo amaro ballo. L’ultimo gol da calciatore giallorosso, segnato alla Sampdoria il 6 aprile del 2019, e l’ultima partita da allenatore giallorosso, il 15 settembre del 2024 contro il Genoa, seguita da quell’esonero ancora inconcepibile che, anche qui specchio fedele della sua esistenza in perenne bilico, gli ha impedito di poter consumare il secondo matrimonio della sua vita sportiva. Quello che senza dubbio si meritava di consumare. Un’ultima partita che, per via di quel rosso rimediato proprio nei minuti finali , ora lo costringerà a essere di nuovo senza esserlo fino in fondo, come il campione e il capitano di cui sopra, allenatore esordiente senza veramente esordire, squalificato alla prima in casa. Viene quasi da sorridere beffardamente a pensarci, ma è proprio così. Come è certo che il primo a farsi una risata e ricamarci sopra una bella battuta in romanaccio sarà proprio lui, che domenica, come un leone in gabbia, sarà costretto ad assistere lontano dai suoi ragazzi al primo atto della sua terza avventura da allenatore. Ma Daniele De Rossi, probabilmente anche solo in quanto romanista, è un uomo abituato alla sofferenza. È consapevole che si deve per forza di cose passare anche dal dolore, dalla frustrazione, dall’orlo del baratro, per poter raggiungere la piena maturità emotiva ed esistenziale. Che per riuscire ad amare bisogna saper patire, nel senso più vero della parola. E, oltretutto, riuscire anche a godere di quei patimenti. “Se sono fiero di essere romanista dopo questa vittoria contro il Chelsea?”, rispondeva nel 2017 al messaggio di un tifoso che ringraziava Dio di averlo fatto nascere romanista e avergli dato la possibilità di vivere una notte bella come quella. “Noi dobbiamo ringraziare di essere romanisti anche dopo i 7-1, anche dopo aver perso male in casa contro il Napoli. Io ringrazio di essere nato romanista tutti i giorni”. Nella gioia e nel dolore, per l’appunto. Come certamente a gioia dolori e sofferenze sono abituati i suoi nuovi tifosi, così passionali turbati e inquieti proprio come il loro nuovo allenatore. “Se non avessi mai perso, non saprei cos'è la sfida. Se non avessi un complesso, sarei un morto che cammina. Questo sale sulla pelle mi fa quasi luccicare, ma poi brucia come il fuoco e dopo inizia a farmi male”, canta Bresh nella prima strofa dell’inno che il popolo rossoblù di Marassi ha eletto da qualche anno a proprio inno prepartita. Quello stesso fuoco che De Rossi da sempre sembra sputare dalle narici ogni volta che è corso sotto la curva a esultare per un gol e quello stesso sale che sin da quell’anno magico per la sua Roma, il 1983, ha sempre sentito nell’aria di Ostia attorno a sé. Ora li porterà nuovamente con sé a Marassi, con tutta la sua struggente e coinvolgente personalità, rivivendo probabilmente quell’ultimo bacio e quell’ultimo ballo che razionalmente sembrano lontani e cosa passata, ma che riletti oggi, con la vita ancora in bilico tra un pallone e la follia, paiono un segno del destino sotto forma di un cartello rosso con una scritta blu che recita: tutte le strade portano a Zena.

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Tutte le strade portano al Genoa

Michele Mastrogiacomo