15 anni senza Laurent Fignon, per sempre giovane e incosciente

«Ah, ma io ti riconosco. Tu sei quello che ha perso il Tour per 8 secondi!» «No, signore, sono quello che ne ha vinti due» «Oggi, sul Galibier, stavo così bene che ho potuto ammirare la bellezza del paesaggio…» – Laurent Fignon, vincitore a La Plagne, 18ª tappa Tour 1984 «Il motore che muoveva Laurent Fignon era la sua testa. Ma a motivarlo non era tanto il piacere del successo quanto il suo ego» – Pedro Delgado, Greg LeMond: The Last Rider «Sono malato, ho un tumore all’apparato digerente... Ho fatto una bella vita, combatterò sino alla fine» . Quando se ne è andato Laurent Fignon, il 31 agosto 2010 all’ospedale della Salpêtrière di Parigi, a soli cinquant’anni per un cancro fulminante al pancreas, s’è portato via con sé una parte di un’intera generazione. «Fignon» è stato un ciclismo nuovo. Diverso. L’ultimo dei mohicani, o dei romantici , prima di Epolandia e della iper-specializzazione. «Non avevamo paura di niente, ma non eravamo disposti a fare qualsiasi cosa». La coda bionda al vento, la fascia sulla fronte – à la John McEnroe, come pure di Pedro Delgado, rivalissimo di Laurent più ancora di Greg LeMond – che negli irripetibili Ottanta era così cool. «Tutti quei ragazzini portavano la famosa fascia con i colori della Renault. Chissà chi sono diventati, adesso. E cosa fanno». La stempiatura precoce, gli occhialini ‘da intellettuale’ – lui che sui banchi di scuola soffriva d’iperattività – e quell’aria così maledettamente parigina da snob. Un paradosso per un ragazzo di periferia, e comunque quanto di più lontano dall’immagine stereotipata del corridore che mai fu: quello del «ciao-mama-son-’rivato-uno» al di qua delle Alpi tramandato – e forse finito – col Processo alla tappa zavoliano. Di là invece, del transalpino, la francesissima spocchia, l’indole ribelle, le buone letture, l’ego smisurato: l’anticonformismo a pedali. Il finto duro, armatura posticcia indossata ad arte per autodifesa. Perché, spiega oggi il suo antico sodale Vincent Barteau all’appena rinato – dopo 31 anni d’oblio – Miroir du cyclisme. “Il problema era il suo status sociale. Dato che Laurent non sempre sapeva scherzare, e non aveva il temperamento per essere divertente e serio allo stesso tempo, dovette inventarsi un personaggio che non fosse il suo. Un personaggio duro, sia con il pubblico sia con i propri figli. Ma non era quella la sua vera natura”. E se lo dice uno della sua banda che ancora oggi si rivedono per ridere, chiacchierare, bere-mangiare-pedalare nel ricordo del loro comune amico, gli si può credere. Laurent Fignon – più ancora che Bernard Hinault forse il vero corridore-simbolo degli epicurei ’80 – è stato ‘altro’ che il campione-poster da parete. Correva in bicicletta non per bisogno ma per passione, e ne ha fatto mestiere. Ha sbagliato e ammesso, ha vinto tanto e perso di più, e comunque – sempre, a qualunque costo – à la Fignon. Un Giro dominato, quello del 1989, un lustro dopo un altro ormai suo e invece sfilatogli, con dolo, in scia al vento nuovo moseriano; e non solo a quello. Fuoriclasse sempre, Le Professeur. Specie nella jella. Due Tour vinti in fila – il primo da matricola, come solo 12 grandissimi – dei quali nessuno parla, e uno perso per otto secondi ancora oggi rimasto sulla bocca di tutti: come le pendici da triathlon e il manubrio a corna di bue di LeMond , ma non della epididimite che a Laurent neppure permetteva di pedalare seduto, figuriamoci spingere a tutta con entrambe le gambe per 24 km contro il tempo. Per lui però niente scuse: quel giorno vinse il più forte. L’Americano a Parigi con ancora in corpo 45 dei 67 pallini di piombo sparatigli per errore dal cognato Patrick Blades in un incidente di caccia in California nell’aprile 1987. Spartiacque di troppe vite in una vissute dal clan-LeMond. È caduto e si è rialzato, Laurent. Ha molto sofferto e fatto soffrire, anche nella vita privata. Più ammirato che amato, specie in Francia. Sempre mal sopportato: da corridore, organizzatore, commentatore. Ha, sopra ogni altra cosa, corso come ha vissuto. E viceversa. Quel panache! Quanto gliel’abbiamo invidiato, ai francesi, uno come Fignon. “Eravamo giovani e spensierati”, ha intitolato la sua autobiografia-manifesto, scritta per davvero di suo pugno e senza sconti con Jean-Emmanuel Ducoin . E così ha attraversato la sua troppo breve, folgorante esistenza. «Predatori di vite. Prometeici trafugatori di fuoco. Bracconieri di tempo. Pirati di generosità… Ecco cosa eravamo veramente in quegli anni formidabili. La nostra gioventù, la mia almeno, la fine di un’epoca selvaggia. Ogni minima cosa, gli appuntamenti, gli amici, le donne, era un pretesto per azzannare la vita. Eravamo pieni di energia. L’energia della vita». Ecco: questo è stato, prima di tutto, per tanti della sua, la nostra, generazione, le Professeur. Un irrefrenabile inno alla vita. Il suo averla toccata così da vicino da restarvi scottati, suggendone il midollo fino a quasi strozzarsi con l’osso. Ma tornando indietro, da vivere e rivivere millemila volte. Foss’anche solo per riprendersi quella parte che, quindici anni fa, s’è portato via con lui. Andandosene così, à la Fignon: toujours jeune et insouciant.

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15 anni senza Laurent Fignon, per sempre giovane e incosciente

Christian Giordano