Tadej Pogacar stupor mundi: così ha dominato il Mondiale di ciclismo di Kigali

Cosa possiamo dire di più di Tadej Pogačar “stupor mundi et immutator mirabilis” del ciclismo contemporaneo? Quali aggettivi, superlativi, invenzioni linguistiche e calembour si possono ulteriormente inventare su un fenomeno di questa vertiginosa dimensione? Ultimamente qualche domanda su di lui era sorta, qualcuno ha sottolineato, fin troppo, il suo atteggiamento un po’ “tenebroso” a fine Tour de France. Poi arrivano i fatti, la cosa che al “barone rampante” sloveno più interessa. Come a Cosimo Piovasco di Rondò a Pogačar evidentemente piace il gruppo ma preferisce tenerselo lontano, sempre in fuga, sempre in una dimensione sua e altra rispetto al resto degli umani. L’anno scorso, al Mondiale di Zurigo, era scattato ai meno 100,8 km al traguardo, restando da solo per oltre 51 km. Quest’anno la sua azione, senza neanche alzarsi sui pedali, è arrivata addirittura ai -104,3 km, sul Mont Kigali, e poi è rimasto da solo negli ultimi 66,6 km. Sul Mont Kigali gli unici a rispondergli sono Juan Ayuso e Isaac Del Toro, ma lo spagnolo si pianta quasi subito, finendo poi inesorabilmente risucchiato, il messicano resiste per una quarantina di chilometri ma poi salta anche lui, bandiera bianca e retrovie inevitabili anche per via di problemi allo stomaco, come confermato dallo stesso Pogačar. E stiamo parlando di due dei più promettenti talenti del ciclismo, di due stelle già splendenti. Lo avevamo scritto alla vigilia, la corsa lo ha confermato: il circuito del Mondiale in Ruanda è stato uno dei più duri di sempre, per l’altitudine, il dislivello, il caldo umido, il percorso. Si contende lo scettro con Sallanches 1980: quel giorno chiusero la prova in 15 dei 107 partenti, quest’anno 30 corridori dei 165 al via. Anche stavolta una corsa a eliminazione. Pogačar ha chiuso a una media spaventosa per il tipo di tracciato e le condizioni ambientali: 42.089 km/h con il tempo di 6h21’20”. Senza alzarsi dalla sella, la sua azione nel chilometro finale del Mont Kigali è stata la sua solita progressione marziana. Chi prova a stargli dietro finisce per bruciarsi, come Icaro nell’avvicinarsi troppo al sole. La cilindrata dello sloveno è superiore, non c’è scampo quando impone quei ritmi. E la cilindrata nel ciclismo è sempre il dato da cui partire e grazie al quale trovare “logiche” là dove sembrano scomparire di fronte alla presenza di un talento così mostruoso e cristallino. Secondo mondiale consecutivo, seconda doppietta Tour-Mondiale in fila e altri sono i numeri da record che si potrebbero snocciolare sul Re incontrastato del ciclismo contemporaneo: 17 vittorie stagionali, 105 in carriera. Quelli che hanno adottato la strategia migliore sono i corridori che non hanno risposto alla sua progressione, e preferito rispettare la propria, di cilindrata. E Remco? Ora però bisogna aprire il capitolo Remco Evenepoel. Il belga sul Mont Kigali era consapevole di non poter reggere il ritmo del rivale. Ma il guanto di sfida lanciato dominando la cronometro iridata non l’ha tirato indietro, anzi in settimana ha sempre rilanciato la sfida. E in corsa ha confermato di essere l’unico in grado di potersi avvicinare al fenomeno sloveno. Una corsa folle, per svolgimento, quella di Remco. Nelle retrovie dopo l’attacco di Pogačar sul Mont Kigali, poi un primo cambio di bici, abbastanza veloce; rientro nel gruppetto dei più immediato inseguitori, altro cambio di bici , stavolta però dopo un’attesa interminabile e la reazione nervosa e scomposta, con un calcione di sinistro sferrato al vuoto, e quindi altra rimonta, infine l’allungo nei confronti dei compagni di inseguimento Ben Healy e Mattias Skjelmose e un ultimo, disperato tentativo di rincorsa, chiuso con il secondo posto finale a 1’28’’ dal neo-bicampione del mondo. Anche senza i due cambi di bici probabilmente avrebbe comunque perso, ma la corsa forse avrebbe trasmesso qualche brivido in più, e lo scriviamo sottolineando il “forse”. I primi tra gli umani A proposito di quelli che hanno indovinato le strategie, il premio lo vince Ben Healy. L’irlandese ci ha spesso abituato ad azioni e fughe talvolta sconsiderate. Lo abbiamo definito un “Chiappucci 4.0” per spirito combattivo, ma con la capacità di essere più efficace e vincente. Questa volta la sua tattica è stata perfetta, come le sue gambe: non ha forzato inseguimenti folli, non ha provato le sue solite sparate, ma ha gestito con intelligenza le energie. Arrivare terzo, a 2’16’’, dietro due giganti come Pogačar ed Evenepoel è come piazzarsi primo tra gli “umani”. Healy conquista il bronzo staccando Mattias Skjelmose. Il danese è il secondo corridore ad avere indovinato la strategia di giornata. In settimana aveva mostrato pubblicamente un po’ di “nervosismo” dopo la notizia dell’arrivo nella sua squadra, la Lidl-Trek, di Juan Ayuso. Ma la competizione interna potrà fare bene a entrambi, e oggi ha dato quella prova di forza che ci si aspettava da tempo da lui. Un quarto posto forse amaro per via della medaglia mancata, ma più che incoraggiante per la prestazione. Dato anagrafico: Pogačar ha compiuto 27 anni il 21 settembre, un compleanno coinciso con la cocente sconfitta a cronometro contro Evenepoel che qualche breccia di speranza per una prova in linea meno scontata l’aveva aperta. In fila alle sue spalle, Evenepoel, Healy e Skjelmose: tutti 25enni. Ayuso, prossimo compagno di squadra di Skjelmose, ne ha 23; ed è arrivato ottavo a 6’47’’, battuto in volata dal Del Toro e dal nostro Giulio Ciccone . L’azzurro ha conquistato il sesto posto, di più non si poteva ottenere, considerando la durezza del percorso e gli avversari. E gli italiani? Gli azzurri hanno corso la gara che dovevano correre. Si fa fatica a immaginare qualcosa di diverso. E, cosa non secondaria, sono tre gli italiani a chiudere la corsa, con il 17° posto di Andrea Bagioli e il 22° di Gianmarco Garofoli, convocato all’ultimo momento in sostituzione del febbricitante Giulio Pellizzari. Ciccone all’arrivo ha dichiarato di non aver mai affrontato una corsa così dura, la sua giornata più difficile vissuta in biciletta in carriera: gli crediamo, le immagini lo confermano, come gli sguardi dei corridori, il sudore che luccicava nel panorama ruandese, la continua ricerca di borracce, i crampi. Il futuro è già oggi Segnaliamo un altro risultato, quello di Paul Seixas. Il francese ha solo 19 anni, ha vinto il Tour de l’Avenir . Al mondiale è arrivato tredicesimo nonostante la sconsiderata tattica di squadra che lo ha lanciato in ripetuti scatti nei primi chilometri, una corsa di attacco in cui si stenta a trovare un senso, una logica. Ma segnatevi il suo nome perché siamo di fronte a un talento che può davvero irrompere sin dall’immediato futuro e arricchire ancora di più questo ciclismo contemporaneo già zeppo di corridori fortissimi. Così come va apprezzata, viceversa, la scelta di Lorenzo Mark Finn, il nostro unico oro di questa rassegna iridata , di restare anche l’anno prossimo nella categoria. Una decisione meditata per non bruciare i tempi e arrivare al professionismo con la giusta preparazione. Il Mondiale al femminile Il Mondiale ha portato all’Italia anche lo splendido bronzo di Federica Venturelli nella cronometro delle Under 23 e l’argento di Chantal Pegolo nella prova in linea delle juniores, frutto di una grande prestazione della squadra azzurra. Non vanno però sottovalutati i tre quarti posti . La “delusione” forse maggiore, se non altro in rapporto alle attese e alla gestione della gara, arriva dalle donne élite. La gara è stata infatti una sorta di “ciapanò” in cui le big, la neerlandese Demi Vollering, la francese Pauline Ferrand-Prévot, la polacca Kasia Niewiadoma e la nostra punta Elisa Longo Borghini, si sono marcate a vicenda, guardandosi a vista fino ad annullarsi l’una con l’altra. E non rendendosi così conto che la fuga-bidone di giornata poteva trasformarsi in un attimo in quella della vita. E difatti così è stato, premiando a sorpresa – e con grandissimo merito – la canadese Magdeleine Vallieres Mill. Molto onesta, a fine corsa, la nostra Longo Borghini: "È stata una gara molto strana, ringrazio le mie compagne di squadra perché loro hanno corso bene, quella che non ha corso bene sono stata io. L'abbiamo persa in maniera sciocca. Chi ha vinto è stato molto coraggiosa e ha fatto delle mosse intelligenti, al contrario di noi . Ci sarà tempo per riflettere, a caldo potrei dire tante cavolate, sicuramente devo farmi io degli esami di coscienza. Stavo bene, le corse si vincono spesso con la testa, è mancata un po' d'intelligenza. L'amarezza c'è, è tanta, le ragazze si sono spese molto per me. È stata un po' una figura del pagliaccio, ma ci rifaremo tra una settimana ”. Un’assunzione di responsabilità netta, che le fa onore. E forse allora ha ragione Pogačar. Meglio partire il prima possibile e restarsene da soli. Non ci sarà compagnia, ma si può vincere. Certo, bisogna avere la cilindrata giusta. Sentirsi un po’ “baroni rampanti” e non avere paura della solitudine per chilometri e chilometri. Ma del resto solo coì si può diventare “stupor mundi et immutator mirabilis”.

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Alberto Pontara