Formula 2, morte Anthoine Hubert: quel che rimane...

Formula 1

Lucio Rizzica

Il tragico incidente del Gran Premio del Belgio nel quale ha perso la vita Anthoine Hubert ci porta a una riflessione sulla relazione tra la paura e il coraggio, sentimenti con cui il pilota, che ha scelto un mestiere in bilico tra la vita e la morte, deve fare i conti

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Anche l’ultimo truck quasi con indolenza è andato via e il paddock del circuito di Spa-Franchorchamps è rimasto deserto. Il traffico di tutti i giorni è tornato lentamente ad occupare le strade statali che portano verso Stavelot e Malmedy, battute da chi da queste parti è quotidianamente abituato a non dare poi tutta questa importanza al cronometro. Del week-end di Formula Uno da poco concluso sono rimaste solo poche macchie d’olio sull’asfalto, qualche manifesto pubblicitario stracciato in terra e qua e là indefinibili graffi di frenata. Di tifosi chiassosi e colorati non c’è più traccia, resiste solo qualche bighellone, più entusiasta di poter tracannare un buon bicchiere di Monard che di un banale selfie da scattare davanti alla Fontaine des jardins. Il vento spazza via senza riguardo gli ultimi echi del week-end appena trascorso, soffia lontano l’eccitazione del trionfo rosso, scaccia la disperazione della tragedia inattesa. Ma cosa rimane adesso di una sciagurata circostanza nella quale un ragazzo di ventidue anni ha perso la vita e un altro poco più giovane rischia di perdere le gambe? Cosa rimane di questa irruzione violenta dell’angoscia della morte in un mondo che ha scelto di rifiutarne premeditatamente l’esistenza? La risposta l’ha data Luca Ghiotto a poche ore dal terribile incidente nel quale Anthoine Hubert ha perso la vita e Juan Manuel Correa è rimasto gravemente leso: “E' impossibile non restare scossi da quanto è successo, aver deciso di non correre oggi è la scelta migliore, se adesso dovessi farlo io avrei paura e molto probabilmente allora non correrei”. Uno stato d’animo comprensibile, una spontanea affermazione dell’innato e sopìto umano istinto di preservazione, ma una solo apparente contorsione logica, che può sembrare stupefacente per chi ha accettato lucidamente di esercitare un mestiere che è un malcerto equilibrio fra la vita e la morte. Un momento di sospensione in attesa di portare a termine con urgenza un reset cerebrale che riconduca il più presto possibile a considerare che dove c’è velocità c’è pericolo e che il coraggio non deve mai sovrastare la percezione della paura. Perché bisogna avere il coraggio di avere paura, ma anche la saggezza di averne rispetto senza mai soggiacerle. Scriveva Albert Camus che "All’infuori di questa unica fatalità della morte, rimane un mondo del quale l’uomo è il solo padrone ". Che si tratti di un mondo o di una pista, alla fatalità della morte non c’è rimedio. Essa ci trascende. Forse la si potrà anche minimizzare, ma non eliminare. E a piedi o a trecento all’ora tutti siamo costretti a farcene una ragione.