"Il giorno in cui sventai il rapimento di Enzo Ferrari": il racconto di Giuseppe Zaccaria

“Ricordo che era una giornata tersa e densa d’umidità, con un clima abbastanza rigido”. Insomma, un giorno non diverso da tanti altri o “forse un po’ più freddo rispetto ai precedenti”. Ma in quel 25 ottobre del 1975 accadrà qualcosa che avrebbe accompagnato Giuseppe Zaccaria, al tempo sottoufficiale, per tutta la vita. “Affiancavo il Maresciallo Ramondino, attraversavamo il centro di Modena a piedi per osservare e controllare gli obiettivi sensibili come oreficerie, banche e uffici postali”. Fin qui, nulla di particolarmente nuovo. “Arrivammo in Via Emilia e poi in Corso Canalgrande, dove al civico 73 c’era – e c’è tuttora – una piccola barberia con appena quattro poltrone. Lì, ogni mattina, più o meno tra le 9:30 e le 10, andava a farsi radere un cliente speciale: Enzo Ferrari”. Il Drake non rinunciava mai a questa sua abitudine. E la domenica e il lunedì, i giorni di chiusura, il barbiere Michele D’Elia andava direttamente a casa Ferrari per radere l’Ingegnere. Quel 25 ottobre 1975 era un giorno importante per Ferrari e la Ferrari: nel pomeriggio sarebbe stata presentata la vettura che avrebbe corso nel mondiale dell’anno successivo. La stampa e i tifosi erano pronti a scoprire la nuova macchina di Maranello e l’Ingegnere era atteso da una giornata impegnativa, ma in nessun caso avrebbe mai rinunciato alle sue tappe quotidiane ‘obbligatorie’: la barba in Corso Canalgrande e la visita alla tomba del compianto figlio Dino, scomparso ad appena 24 anni a causa di una distrofia muscolare. “Andava a trovarlo ogni giorno, - ci racconta il Commissario Zaccaria – anche nei giorni festivi”. E anche quella mattina, quindi, era iniziata nella consueta maniera per Enzo Ferrari. “Con il Maresciallo eravamo a circa 50 metri dalla barberia quando notammo arrivare un’auto targata Varese. Da questa scesero due uomini, uno di statura medio-bassa e l’altro alto e aitante. Si appoggiarono sul colonnato sotto i portici, dividendosi e facendo finta di non conoscersi, cosa che attirò subito la nostra attenzione” sottolinea Zaccaria. “Li osservammo meglio e capimmo subito che erano due potenziali criminali. Rompemmo gli indugi quando notammo un tatuaggio sulla mano sinistra di uno dei due: un tatuaggio che contrassegnava l’appartenenza a una frangia criminale nota e pericolosa. Ci avvicinammo e chiedemmo loro i documenti, che ci vennero forniti prontamente. Sulle rispettive carte d’identità i due uomini risultavano residenti a Milano, ma il loro accento era romanesco”. I sospetti aumentavano, il Maresciallo Ramondino e il sottoufficiale Zaccaria capirono di dover intervenire preventivamente: “Li fermammo in un portone che allora ospitava la sede del Notariato Provinciale mentre aspettavamo aiuti e soccorsi dalle nostre volanti e anche dagli uomini di Ferrari, che erano lì vicino. Con l’Ingegnere c’erano sempre Valdemaro Valentini, guardia del corpo ed ex della Polizia Stradale, e il suo autista Dino Tagliazucchi, ex carabiniere ausiliare. Chiedemmo subito il loro aiuto perché capimmo che se non fossimo intervenuti, ci sarebbe stato un bagno di fuoco”. Un’intuizione corretta, anche alla luce di quanto fu scoperto in seguito: i due uomini non solo volevano rapire Enzo Ferrari ma facevano anche parte del Clan dei Marsigliesi, allora capeggiato da Jacques Berenger, Albert Bergamelli e Maffeo Pelliscini e ‘specializzato’ nei sequestri di persona. “Mentre cercavamo di trattenerli, quello più alto e atletico dei due tentò una fuga e iniziò a correre lungo il Canalgrande nella direzione dell’ospedale e io mi lanciai all’inseguimento. Mi accorsi subito che si trattava di un uomo allenato, aveva fiato e un bel passo. Lo raggiunsi e tentai di atterrarlo con una mossa di judo. Ero cintura nera e feci la ‘Deashi Barai’, una tecnica comunemente nota come ‘spazzata’ che si usa per far cadere l’avversario. Ma lui riuscì a liberarsi dalla mia presa e caddi a terra. Continuai a seguirlo, superammo la palestra chiamata ‘Panara’, dove qualche anno dopo si allenò anche il campione olimpico Yury Chechi, e arrivammo fino al bivio di Via Santa Margherita, dove mi giocai l’ultima carta” ricorda con voce ferma e accurati dettagli Zaccaria. “Ero esausto e non riuscivo più a tenere il suo ritmo, quindi tentai una placcata da ‘giocatore di rugby’, lo afferrai per le caviglie e lo buttai a terra. Lui si rialzò prima di me e iniziò a tirarmi dei calci che mi incrinarono qualche costola, ma non mi fermai. Mi rialzai e iniziammo una lotta dura. Alla fine ebbi la meglio, riuscii a gettarlo di nuovo a terra e usai una mossa di lotta greco romana nota come ‘cravatta’ per non farlo muovere. Poco dopo arrivano alcuni miei colleghi e lo arrestammo. Grazie al nostro intervento, quest’uomo – che negli anni successivi entrò nella Banda della Magliana – e il suo ‘collega’ dovettero rinunciare a rapire l’Ingegner Ferrari”. Venuto a conoscenza di quanto accaduto, il Drake volle incontrare Zaccaria: “Fui suo ospite al ristorante Cavallino”. E con l’occasione Enzo Ferrari avanzò una proposta importante nei confronti del suo difensore: “Mi chiese di entrare a far parte della sua famiglia per poter rafforzare il comparto sicurezza e fargli da guardia del corpo. Ma io, pur ringraziandolo, rifiutai”. I due però si incontrarono altre volte: “Lui continuò ad andare alla barberia e più volte ci rivedemmo. Ogni mattina leggeva tanti giornali, nazionali, internazionali e anche locali. Quando leggeva di qualche nostro intervento a Modena, mi faceva i complimenti per il lavoro svolto. Era un uomo di poche parole ma riusciva sempre a dimostrare la sua stima. Poi ci siamo rincontrati in un momento spiacevole, quando dei criminali profanarono la tomba del figlio Dino. Una volta giunti scoprimmo che il cadavere non si era decomposto e ancora ricordo le parole dell’Ingegnere: ‘Non avrei mai creduto di rivedere nuovamente mio figlio’. Fu un momento tragico ma anche molto toccante”. Sono trascorsi cinquanta anni da quando Giuseppe Zaccaria riuscì a evitare il rapimento di Enzo Ferrari. Da sottoufficiale è divenuto Commissario, ha prestato servizio a Modena e in diverse città italiane all’interno della squadra mobile e della Digos. Oggi è in pensione e, come lui stesso si definisce, è “un bimbo di 83 anni”. C’è chi lo ha definito un eroe ma a lui non piace essere chiamato così: “Non penso di esserlo. Sono persona come tante con le sue fragilità, ma quel giorno non ho avuto paura. In quei momenti si amplificano le forze, perché sai che stai subendo un torto e che questo torto è riverberato verso coloro i quali sono oggetto della nostra vigilanza, la nostra gente. Il popolo crede nelle istituzioni e noi abbiamo il dovere di difendere il popolo. Non potevo farmi sopraffare, mi sarei sentito un vigliacco e inutile. In una situazione ‘normale’ sarei stato atterrato e sopraffatto mille volte dall’avversario con cui mi scontrai ma, sapendo di dover difendere qualcuno, sono riuscito ad avere la meglio io”. Da ragazzo Giuseppe Zaccaria militava nelle giovanili del Milan. Giocava ala destra, con lui in squadra c’era Giovanni Lodetti, che arrivò anche in Nazionale e con la maglia Azzurra vinse gli Europei del ’68. La carriera da calciatore di Zaccaria si interruppe per un problema al ginocchio: “Non penso sarei diventato un campione o una star, ma a prescindere è stato meglio così”. E, senza dubbio, la pensava così anche Enzo Ferrari.

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Emiliano Tomasini