MotoGP: C'era una volta l'americano, rubrica di Paolo Beltramo sui piloti USA

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Paolo Beltramo

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Dalla prossima settimana in arrivo i ritratti dei piloti protagonisti della grande scuola statunitense delle due ruote. Eccone un assaggio

Fino al 1975, anno dell'ultimo titolo vinto da Giacomo Agostini, il Campionato del Mondo di motociclismo si divideva in 6 categorie (50, 125, 250, 350, 500 e sidecar) e si chiamava "Continental Circus" visto che anche tutte le gare si disputavano in Europa e di piloti che venivano da altri continenti ce n'erano soltanto 2: Hideo Kanaya, giapponese e Jack Findlay, australiano, ma poi naturalizzato europeo. Ancora non si correva in altri continenti, la maggioranza dei piloti si spostava da un Gran Premio all'altro, con camioncini, tende o roulotte, e amici, mogli, parenti a fare da meccanico-cuoco-aiuto in generale. Certo Agostini, Sheene, Read e pochi altri avevano un'organizzazione professionale che li supportava, ma la stragrande maggioranza dei piloti di allora partecipava a due gare per poter così incassare il premio di partenza doppio e quindi sopravvivere. Normalmente la categoria di punta era una sola: 350 come principale, 500 come numero, magari corsa con una Yamaha 351cc bicilindrica. Insomma, c'erano i grandi, che correvano in 2 cilindrate per vincerle entrambe come fatto per anni da Agostini e Nieto, i buoni e i lavoratori del manubrio. Tutti però uniti da questo villaggio mobile, sempre uguale, ma allo stesso tempo sempre diverso

Nel 1976 l'avvisaglia di una rivoluzione che stava per sconvolgere valori, stili, modi di intendere le gare: arrivò il primo pilota statunitense, Pat Hennen. Allora si correvano poche gare e molte su circuiti pericolosissimi come Salisburgo, il primo Mugello, il TT all'isola di Man (da un po' già boicottato dai grandi), il vecchio Assen, Spa-Francorchamps nella versione di 14 km, Anderstop, Imatra e Brno due stradali, fino al vecchio Nuerburgriong. Nel '77 le cose cominciano evidentemente a cambiare: si parte con la gara in Venezuela e arrivano, insieme a Johnny Cecotto, venezuelano, sia Pat Hennen sia un altro americano: Steve Baker, l'uomo col numero 32 e gli occhiali sotto il casco.

Nel 1978 si apre definitivamente la nuova era, quella degli americani, che durerà una quindicina d'anni, ma che lascerà un segno indelebile, bello, emozionante su questa disciplina. Le categorie si riducono fino a 3 (125; 250; 500), i circuiti lentamente cambiano e diventano poco alla volta meno pericolosi, tutto diventa più professionale e intercontinentale, pur riuscendo a mantenere quel gusto, quell'atmosfera da piccola (neanche tanto, diciamo 2000 persone) comunità unita dallo stesso amore, dalla stessa passione, funestata da drammi che pure loro poco alla volta diminuiscono, anche se non scompariranno mai.

Il primo americano a vincere un Mondiale è Kenny Roberts con la Yamaha 500 e ci riesce al suo primo tentativo. L'abbiamo chiamato "King" e incoronato sul podio di Imola, poi anche "Marziano". L'abbiamo guardato guidare a bocca aperta, pensando fosse un'eccezione. Invece era un inizio. Insieme e dopo di lui ne sono arrivati tanti, quasi tutti forti, o fortissimi, o fenomenali. Ne citiamo qualcuno, un po' così a caso: Randy Mamola, Freddie Spencer, Eddie Lawson, John Kocinsky, Dough Chandler, Mat Mladin, Mike Baldwin, Kevin Schwantz, Wayne Rainey, Jimmy Filice… In Superbike Fred Merkel, Colin Edwards. Poi c'è stato il dominio australiano di Doohan, un altro titolo americano e familiare con Kenny Roberts Jr e infine il compianto Niky Hayden nel 2006. Poi basta.

Ora di piloti americani nel motomondiale non ne sono rimasti (se non contiamo presenze ininfluenti come quella di Joe Roberts). Una grande scuola che sembra finita nel nulla, così come è diventato uno solo il GP americano (Austin), mentre ce ne sono anche stati anche 3 (con Laguna Seca e Indianapolis). In questa serie di semplici ritratti, vi voglio raccontare, un po' alla volta la storia di questi piloti americani che per la stragrande maggioranza ho vissuto dal vivo. Magari riesco a limitare un po' la mia e la vostra nostalgia per quei tempi, così diversi da oggi.