Seconda parte [qui la prima] di una doppia intervista agli autori dei due libri che mettono uno di fronte all'altro - anche sugli scaffali delle librerie - due tra i protagonisti di queste finali NBA, LeBron James e Steph Curry. Qui Marcus Thompson ci racconta Golden: the Miraculous Rise of Steph Curry
OAKLAND — Marcus Thompson nasce come grande tifoso dei Golden State Warriors, di cui poi diventa uno dei più attenti osservatori nel suo ruolo di giornalista per The Mercury News, uno dei quotidiani della Baia. Il 13 aprile 2017, proprio mentre Brian Windhorst e Dave McMenamin arrivano nelle librerie con The Return of the King, Thompson pubblica il suo Golden: The Miraculouos Rise of Steph Curry, dando così involontariamente vita a una sorta di sfida nella sfida (copie vendute invece di vittorie e sconfitte) tra il n°30 degli Warriors e il 23 dei Cavs, due tra i principali protagonisti delle finali NBA 2017. Abbiamo incontrato Thompson per farci raccontare come è nata l’idea di dedicare a Steph Curry un intero libro e alcuni particolari curiosi della realizzazione. “Ho iniziato a scriverlo nel gennaio 2016 — dice — ma in realtà nasce dal fatto che dal 2009 ho seguito Steph e la squadra quasi quotidianamente. Devo essere sincero, non è neppure stata una mia idea: mi è arrivata la proposta di scriverlo e un’offerta economica che ho ritenuto soddisfacente. Perché no, mi son detto. Gli Warriors avevano appena vinto il titolo del 2015, erano 22-0 per iniziare la stagione successiva e io mi sentivo già abbastanza esausto — ma l’offerta è stata buona e così ho accettato. Dar vita a Golden è stata forse l’impresa più dura della mia carriera. Se non ricordo male ho iniziato il 23 gennaio e la deadline che mi è stata data era il 15 luglio! Non potevo concentrarmi solo sul libro perché nel frattempo stavo continuando a seguire la squadra impegnata nella stagione regolare prima e nei playoff poi per il mio giornale, per cui l’impegno è stato davvero notevole. Quando in finale hanno perso gara-7 per me ha voluto dire buttar via qualcosa come 30.000 parole, tutta una parte di libro già preparata in vista di una vittoria finale — il titolo doveva essere una cosa come La stagione magica di Steph Curry. La sconfitta ha cambiato tutto, mi è stata prolungata la deadline fino a metà agosto. Essendo offseason pensavo di potercela fare, perché avevo più tempo e potevo dedicarmi al libro completamente. Ma poi accade che il 4 luglio gli Warriors firmano Kevin Durant…”. Thompson scoppia a ridere: è tutto da rifare, un’altra volta.
La singolarità di Steph Curry
All’autore chiediamo del perché il n°30 di Golden State rappresenti un caso unico nella storia di una franchigia che di giocatori amati dai tifosi ne ha avuti tanti, dal trio di Run TMC (Tim Hardaway, Mitch Richmond, Chris Mullin) negli anni ’90, fino ai più recenti Baron Davis o Monta Ellis. “Fino all’arrivo di Steph i tifosi qui nella Baia alla squadra sostanzialmente chiedevano soltanto di farli divertire. Gli Warriors dovevano essere spettacolari, gli veniva chiesto di avere uno stile di gioco divertente, riuscire a competere con le migliori squadre dell’Ovest era già considerato abbastanza. Con l’arrivo di Steph è cambiato tutto: lui ha fatto fare alla franchigia il salto necessario per entrare nell’élite della lega. Con lui i tifosi hanno iniziato a capire che gli Warriors erano all’altezza di qualsiasi altra squadra. Qui tutti amano ancora Chris Mullin e Tim Hardaway o Jason Richardson e Baron Davis e la squadra del We Believe [2007, ndr] ma con Steph — ovviamente insieme a Draymond Green e Klay Thompson — gli Warriors sono saliti a un livello che nessuno poteva neppure immaginare. Prima nessuno parlava di poter vincere un titolo, non era neppure un sogno. Ovviamente non ha fatto tutto da solo, ma lui è stato il pezzo centrale nella costruzione di un qualcosa, lui è stato il primo passo di una lunga marcia. Gli Warriors cercavano una superstar e finalmente con Steph l’avevano trovata. Ci avevano provato a lungo a trovare quel giocatore franchigia, quello che poteva far competere la squadra contro Kobe e i suoi Lakers. Nei primi anni di Curry — quando non era ancora il Curry che tutti conosciamo oggi — anche con lui in squadra quella ricerca è continuata: Golden State ha provato ad arrivare a Dwight Howard; ha provato ad arrivare a LeBron James; avevano messo nel mirino Kevin Durant da anni, già dal 2012. Solo in un secondo momento si sono accorti che quella superstar ce l’avevano già in casa, anche se nessuno lo sapeva. Nella NBA se vuoi competere ad alto livello devi avere questo tipo di superstar — anzi, forse oggi ne devi avere due o tre — ma Steph è stato il primo, il pezzo n°1, quello da cui partire per poter finalmente andare all’assalto del titolo”.
La cultura di squadra, declinata in stile Warriors
Un assalto che ha potuto concretizzarsi nel titolo del 2015 anche grazie alla costruzione di una cultura di squadra cui Steph Curry ha sicuramente contribuito: “Steph è una superstar diversa dalle altre, caratteristica che lo rende unico”, sostiene Thompson. “La sua umiltà, la sua gentilezza hanno dato quest’immagine degli Warriors per cui altri grandi giocatori si sono sentiti attirati dall’idea di giocare qui. Si sentono sempre storie di superstar che condizionano tantissimo con la loro presenta tutta la franchigia, perché consce della loro importanza per la stessa: è stato così per Kobe e i Lakers, da quello che si sente è così per LeBron a Cleveland, dove tutti dicono che la sua influenza sui Cavs sia enorme in ogni aspetto. Curry è esattamente il contrario. La sua integrità, la sua etica del lavoro, la sua spinta a essere sempre il miglior giocatore e uomo possibile hanno alzato l’asticella a un punto mai prima raggiunto dagli Warriors. Quando è stato investito del ruolo di giocatore franchigia sostanzialmente è stato chiaro a tutti che d’ora in poi i canoni comportamentali, in campo e fuori, sarebbero stati quelli stabiliti da lui, con la sua professionalità, la sua integrità. Credo che ancora oggi non riceva abbastanza merito per questo aspetto della sua leadership. Il fatto che all’inizio della sua carriera non fosse così forte forse gli ha permesso di mantenere un profilo più basso, essenziale per costruire la chimica di questa squadra. Nel 2013-14 l’arma in più degli Warriors era proprio la loro chimica: non avevano assolutamente il talento di altre squadre ma lavoravano e giocavano assieme uniti da un legame davvero speciale che li rendeva difficili da battere. Con l’anno successivo il loro nucleo — inizialmente molto giovane — è progressivamente migliorato: Steph è diventato più forte, e lo stesso vale per Klay [Thompson], Draymond [Green] e Harrison [Barnes]. Ecco allora che alla chimica si univa un grado di talento diventato importante, ma il cambio nella cultura di squadra ha avuto come basi l’etica del lavoro, la professionalità e lo sviluppo dei propri giocatori e del loro talento”.
Le testimonianze di Sydel e coach Kerr
“L’intervista più bella che si trova all’interno del libro per me è quella a sua sorella più piccola Sydel, che sa un sacco di storie divertente e ha avuto voglia di raccontarle. Come ad esempio il fatto che fosse totalmente contrario all’inizio alla relazione di Steph con Ayesha, poi diventata sua moglie. Ha cercato di sabotare in tutti i modi la loro storia, perché pensava che nessuna donna potesse essere all’altezza di suo fratello — ma poi ha finito per innamorarsi anche lei di Ayesha”. I retroscena familiari o anche le storie di spogliatoio sono, a detta di Thompson, una delle parti forti di Golden, e tra questi c’è la definizione coniata per Steph Curry dal suo allenatore, Steve Kerr: “Umile fuori dal campo, arrogante dentro — mi ha detto — ed è assolutamente vero. Steph è una dicotomia che cammina: è davvero un ragazzo d’oro, quelli che lo conoscono per davvero lo confermano, eppure spesso dagli avversari è odiato. Il motivo è perché in campo è davvero arrogante e il perché è da ricercare nel fatto che il suo talento è sempre stato messo in dubbio: ha dovuto sviluppare una sorta di alter ego nel quale si trasforma quando è in campo. Avete dubitato di me? Non avete creduto in me? Vi farò ricredere e lo farò imbarazzandovi davanti a tutti, perché tutti possano capire quanto vi foste sbagliati sul mio conto. Ne abbiamo parlato spesso assieme, sa che è così, lo riconosce anche lui — e lo si vede da come gioca: Steph non ha problemi a far fare una figuraccia al proprio avversario se ne ha l’occasione, trasformarlo in un meme per il godimento dei tifosi. In campo ha la stessa ultra-competitività di un Kobe Bryant, ma a vederlo fuori non c’è nemmeno l’ombra di tutta questa cattiveria agonistica, perché è un individuo sempre attento alle persone che gli stanno attorno, davvero gentile”. Dr. Steph & Mr. Curry, quindi: non sarebbe stato un brutto titolo per il libro.