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Playoff NBA, la rivincita di “Quel tizio di nome Jrue”

NBA

Dario Costa

Stiamo assistendo alla stagione della definitiva consacrazione di Jrue Holiday, e le prime due gare di playoff ne sono la controprova.

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Lo scorso ottobre, la scommessa più intrigante sui nuovi New Orleans Pelicans riguardava quale tra le due “strane coppie” pescate dal general manager Dell Demps avrebbe funzionato meglio. Sarebbe stata più semplice la convivenza nel pitturato di Anthony Davis e DeMarcus Cousins o quella palla in mano tra Jrue Holiday e Rajon Rondo? Considerato l’enorme accumulo di talento e le fondamenta comuni gettate nella manciata di partite giocate insieme tra febbraio e aprile della scorsa stagione, le quote migliori risultavano quelle accostate alla coppia di lunghi. E in effetti la prima parte di regular season sembrava confermare le previsioni, con “AD” e Boogie a braccetto sugli scudi a trascinare New Orleans verso le zone alte della Western Conference. Viceversa, la coesistenza tra gli altri due si delineava molto più tortuosa: a complicare il processo d’integrazione era soprattutto Rondo, sbarcato in Louisiana incarnando la versione di sé già poco apprezzata nelle ultime fermate tra Dallas, Sacramento e Chicago. Già, perché di fatto l’altro interprete del backcourt a disposizione di coach Gentry appariva da subito calato nella parte assegnatagli: lontano dai clamori e dall’attenzione dei media concentrata sulle due ingombranti figure gravitanti intorno al ferro, Jrue Holiday cominciava lì a costruire la sua miglior stagione di sempre. Lo stile di gioco solido sui due lati del campo, d’altronde, non rappresentava una novità, al pari del relativo trasporto di appassionati e addetti ai lavori per le prestazioni dell’ex-UCLA.

Lontano dai riflettori, verso l’apice

Il career high ai playoffs maturato in Gara-2 a Portland (33 punti tirando col 58.3% dal campo e distribuendo 9 assist, con tutti i canestri più importanti nel finale) è solo il culmine di un’annata passata immeritatamente sotto silenzio. Ad impressionare è soprattutto il rendimento dopo l’All-Star Game quando, assodata l’assenza di Cousins e metabolizzato l’inserimento del neo-arrivato Nikola Mirotic, la squadra ha cambiato marcia (20 vinte e 13 perse il bottino senza “Boogie”). Nelle 24 gare successive al weekend delle stelle, la guardia dei Pelicans ha mandato a referto 19.8 punti, 4.9 rimbalzi e 7.2 assist di media tirando col 50.8% dal campo e il 37.6% da tre (prima della pausa di metà febbraio i punti di media erano 18.6, con 4.3 rimbalzi e 5.5 assist e il 48.8% dal campo con il 32.5% da tre). Non sono mancate le singole prestazioni maiuscole, serate in cui notare la differenza tra il numero 11 dei Pelicans e le superstar più acclamate della lega è stata opera improba.

Piccola grande rivincita contro la franchigia che lo ha ceduto nell’ottica di avviare il Process.

Se il suo rating offensivo è rimasto invariato a quota 108,8, mentre è stato sul versante difensivo (104.3 il rating pre-ASG, 100.4 quello successivo) e su quello del ritmo (102.49 diventati 104.76 possessi di media dalla seconda metà di febbraio in poi) che Holiday ha dettato la linea per i compagni. E come sempre i numeri dicono molto ma non tutto, in particolare per un giocatore che nel corso del tempo ha fatto dei cosiddetti intangibles la propria specialità.

La convinzione con cui Holiday si è adattato al nuovo ruolo, accettando di giocare lontano dalla palla come mai in passato, è stata l’architrave della sua definitiva consacrazione. La capacità di tenere costantemente sui cambi, finendo per marcare spesso esterni con cui sussiste un oggettivo squilibrio in termini di altezza e peso, ha consentito ai Pelicans di nascondere i limiti di buona parte del roster. In particolare, proprio nell’assetto post-infortunio di Cousins, il suo sacrificio fisico e tattico è stato essenziale alla presenza sul parquet di tiratori dalla rivedibile attitudine difensiva (Darius Miller), tecnicamente non impeccabili (E’Twaun Moore) o mentalmente ondivaghi (Rondo), a loro volta decisivi per l’equilibrio nell’altra metà campo. La foga nel buttarsi su ogni pallone ha contagiato in maniera positiva una squadra che prima non brillava certo per abnegazione nella propria metà campo (con 1.6 palloni recuperati di media l’ex-Sixers si è piazzato quinto nella specifica classifica).

È opinione diffusa che, tra le guardie, Holiday sia ormai diventato il migliore della lega nel difendere sul portatore di palla in situazioni di pick and roll, tesi avvalorata dal trattamento riservato al duo Lillard-McCollum nei primi due episodi della serie con Portland. E in linea con quanto portato avanti durante tutta la stagione regolare, mentre complicava la vita agli avversari, nelle due partite giocate al Moda Center Holiday si è preso sostanzialmente i tiri che voleva quando voleva o, in altri momenti, ha letto perfettamente le difese dei Blazers sfruttando evidenti mismatch (innanzitutto Jusuf Nurkic accoppiato con Mirotic) oppure servendo Davis all’altezza del ferro per una facile schiacciata a due mani.

In definitiva, aldilà delle celestiali performance di Davis, il pezzo che ha sistemato il puzzle all’apparenza irrisolvibile sul tavolo di Gentry è stato  proprio Holiday. Anche grazie al favore delle circostanze, va detto, caratteristica questa sì in decisa controtendenza rispetto alla carriera precedente del ragazzo da Chatsworth, California.

Inversione di rotta

Scelto dai Sixers con la chiamata numero 17 al Draft 2009, l’ex-Bruin ha sin dall’inizio pagato lo scotto della relativa spettacolarità delle sue giocate. Non bastasse, il suo soggiorno a Philadelphia è coinciso con lo stallo della franchigia in quella terra di mezzo tra l’aurea mediocritas e l’avvio del celeberrimo Process. E Holiday, pur conquistandosi l’All-Star Game al suo quarto anno nella lega, è stato una delle prime vittime della rivoluzione voluta da Sam Hinkie, spedito a New Orleans in cambio delle scelte che si sarebbero trasformate in Nerlens Noel e, successivamente, Dario Saric. Dal suo arrivo nella Big Easy, il playmaker degli allora Hornets ha sperimentato una trafila d’infortuni debilitanti (74 le partite giocate nelle prime due stagioni con la nuova maglia). Non bastasse, all’inizio della regular season 2016-17 Jrue ha dovuto saltare le prime 12 gare per assistere la moglie, operata per un tumore al cervello poche settimane dopo aver dato alla luce la primogenita della coppia. Da lì in poi, però, la sorte ha cominciato a sorridere e sono arrivati, nell’ordine, un nuovo, sontuoso e criticatissimo contratto (126 milioni di dollari per cinque anni) e l’eccellente annata, libera da problemi fisici e famigliari, tutt’ora in corso (81 gare giocate, meglio aveva fatto solo nella sua seconda stagione da professionista).

Quel tizio di nome Jrue

Ora, sopra 2-0 e con il fattore campo totalmente ribaltato, il destino suo e della squadra parrebbe andare oltre il primo turno con Portland, per quanto ci sia ancora un sacco di pallacanestro da dover giocare. Quasi certamente ad attendere Holiday e compagni ci sarebbero i campioni in carica: contro i Golden State Warriors servirà un’ulteriore iniezione di fortuna, anche se lo stato d’animo con cui i Pelicans – che rispetto a Golden State non avrebbero niente da perdere dal confronto – sembra molto vicino a quello ideale per una sfida ai limiti dell’impossibile. Quanto al discorso di vedere riconosciuto adeguatamente il proprio valore, il diretto interessato non dà l’impressione di soffrire più di tanto lo snobismo che insiste nei sui confronti, tantomeno i dubbi circa la sproporzione del suo stipendio rispetto al reale valore tecnico. Perché in fondo già in un vecchio spot datato all’anno 2013 lo definiva con un po’ di sarcasmo “That boy Jrue”, come a dire: uno qualunque che passa per strada, rispetto ai vari John (Wall) e Damian (Lillard), ben più riconoscibili e pompati. Finché i risultati in campo sono questi, l’oblio mediatico può continuare: a New Orleans così come a casa Holiday, dove il baratro l’hanno sfiorato sul serio, se ne faranno tranquillamente una ragione.