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NBA, Kevin Durant: “Mi sento in debito con il gioco: mi ha cambiato la vita, mi ha salvato"

NBA

Mauro Bevacqua

Due anni dopo la contestatissima scelta di lasciare Oklahoma City per unirsi agli Warriors, il n°35 festeggia il secondo titolo NBA e il secondo trofeo di MVP delle Finals. "Ma il bello qui è che ognuno di noi insegue qualcosa di più grande della gloria personale"

CLEVELAND, OHIO — Raggiante. È questa la parola giusta per descrivere Kevin Durant quando si presenta al tavolo della conferenza stampa portandosi dietro il trofeo (il secondo vinto in fila) di MVP delle finali NBA. Sempre contenuto, mai chiassoso nei modi di fare, ma non per questo meno felice — una felicità che sembra originare tanto dalle vittorie quanto dalla cultura di squadra che si è installata agli Warriors: “È presente in tutti noi, vogliamo tutti qualcosa di più grande della gloria personale. Penso che ognuno ami vedere i propri compagni avere successo. Ci piace giocare assieme e assieme risolvere le sfide che il campo ci propone”. Il sospetto che a Oakland stesse andando in scena qualcosa di speciale dev’essere quello che ha spinto il ragazzo di Seat Pleasant, Maryland, a mollare l’Oklahoma per spostarsi a Ovest: “Sì, vedevo che c’era qualcosa di speciale nella cultura di questa squadra, sia quando li affrontavo da avversario che quando li guardavo giocare in tv. Poi però lo senti davvero solo se lo vivi sulla tua pelle, giorno dopo giorno”. E anche quando spiega la sensazione che prova di fronte all’ennesima vittoria della sua carriera, Kevin Durant sembra essere in connessione con qualcosa di più profondo di un semplice trionfo sportivo. “Attraverso il mio lavoro, attraverso la cura che cerco di mettere ogni giorno in quel che faccio, sento di aver fatto qualcosa di buono per il mondo, di aver rimesso in circolo nello spazio dell’energia positiva, quella che mi arriva dall’aver lavorato sempre sodo, volendo bene ai miei compagni come loro ne vogliono a me”. Durant non la chiama una validazione del suo valore — non crede probabilmente di averne bisogno ora, dopo aver già vinto tutto nella sua carriera — ma semplicemente “il prodotto del duro lavoro, dell’amore e dell’attenzione a ogni minimo dettaglio del gioco”. Un gioco — dice l’MVP delle ultime due finali — “verso il quale sento un debito di riconoscimento: la pallacanestro mi ha salvato, la pallacanestro ha cambiato radicalmente la mia vita, facendomi uscire da un ambiente che pensavo non avrei mai potuto mettermi alle spalle. Pensavo che avrei vissuto in Maryland per tutta la mia vita, invece ho l’opportunità di viaggiare per tutto il mondo e incontrare un sacco di persone interessanti — e sono grato di tutto questo. Vincere è la ciliegina sulla torta, ma poter aver cambiato la vita mia e della mia famiglia è quello che più conta”, dice.

Due anni dopo, è tempo di vendetta per KD

Anche Kevin Durant però è umano, e tra le parole di gioia traspare anche un pizzico di dolce vendetta, da gustare contro chi aveva violentemente criticato la sua scelta di lasciare i Thunder nell’estate 2016. “Tutti quei giocatori o ex giocatori che avevano avuto così tanto da ridire sulla mia scelta sanno come gioco. Sanno esattamente quello che porto in dote a una squadra. Lo sanno, non ho nessun dubbio al riguardo. Lo capiscono quando si ritrovano su un campo da basket con me o quando mi guardano giocare. Io so quello che porto al gioco, so qual è il approccio. So quanto lavoro duro, so quanto ci tengo. Quello su cui cerco di concentrarmi più di tutto è di essere un ottimo giocatore professionista di pallacanestro, che gioca sempre al massimo per sé e per la squadra. è un mio punto di orgoglio”. Così come l’orgoglio gioca una parte nel voler vincere — e vincere ancora — contro tutto e contro tutti. “è così che sai di essere una grande squadra, quando vedi che tutti cercano di batterti. Che siano gli avversari, gli allenatori, i tifosi o i media che ci odiano, è bello sentire di essere la squadra che tutti vogliono far fuori. Ci rende migliori, ci fa venire al lavoro con il massimo dell’impegno e della concentrazione, ogni giorno — ed è la parte più difficile”. Non abbastanza per impedirgli di riuscirci, per il secondo anno di fila.