Dalle decisioni di LeBron James e Paul George allo snodo fondamentale rappresentato da Kawhi Leonard fino a tutto il resto: i free agent si ritrovano davanti ad un'estate complessa, con tanta voglia di cambiare e poco spazio salariale per farlo. Ecco tutto quello che c'è da sapere a poche ore dall'apertura del mercato
La risposta a qualsiasi domanda sulla free agency 2018 - che inizierà all’alba italiana di sabato, anche se poi in realtà prima del 7 luglio non sarà possibile rendere ufficiale la stragrande maggioranza delle operazioni - è sempre la stessa: LeBron James.
Ed è naturale che sia così, perché non ci sono motivi razionali per provare a prescindere da un Fenomeno che ha portato in finale una squadra che ha chiuso i playoff con Net Rating di +1, valore che negli ultimi 15 anni è stato quello medio delle squadre che dai playoff sono state eliminate al primo turno senza vincere nemmeno una partita.
Degli scenari a disposizione di LeBron si è detto e scritto di tutto e ovunque, forse addirittura ragionando più a fondo di quanto ha fatto e farà lui stesso, come potrebbero dimostrare voci recenti secondo cui non sarebbe interessato ad ascoltare le presentazioni in pompa magna delle singole pretendenti né disposto a sottoporsi a particolari opere di convincimento, perché sa benissimo quali siano le possibilità sue e delle varie squadre.
Tutto il resto del mercato NBA si può suddividere in due parti principali: ciò che da LeBron è indipendente e ciò che invece più o meno direttamente dipende da lui, o può condizionarne la scelta, o può condizionare le decisioni delle squadre che più o meno direttamente avranno a che fare con lui e con la sua prossima destinazione, a partire dai Los Angeles Lakers e da Kawhi Leonard.
Lo snodo Kawhi
Il silenzio ai limiti dell’omertà che per anni è stato un enorme pregio di Kawhi e motivo di grande orgoglio per un’organizzazione come i San Antonio Spurs, che in certe sfumature del suo carattere rivedevano Tim Duncan, in questa stagione è diventato un clamoroso difetto, se non addirittura l’origine principale di tutti i problemi. Questo perché si è scontrato con il silenzio, i sottintesi e le regole ferree della “Spurs Way”, in una sfida tra muri di gomma che ha portato una situazione antipatica a sfociare in una crisi diplomatica forse definitiva.
Leonard è infortunato o forse no, può giocare o forse no, si allena con i compagni o forse no, ha parte dello spogliatoio contro o forse no, parla con Gregg Popovich e R.C. Buford o forse no: nessuno comunica, nessuno chiarisce, nessuno capisce. Tutto ciò che si può fare dall’esterno è speculare con buone probabilità di centrare il bersaglio, ad esempio sul fatto che la prima diagnosi del suo problema fisico effettuata dai medici degli Spurs sia stata una tendinite, che è un’infiammazione, e che invece Kawhi sia affetto da tendinosi, che è una tendinite cronica e degenerativa e che quindi non causa semplicemente dolore, ma porta con sé tempi di recupero enormemente più lunghi e il rischio di indebolimento, compromissione e in casi più estremi lesione o rottura del tendine, nel caso specifico di quello del quadricipite. Un esempio recente di cattiva diagnosi di un simile problema che ha causato danni tutt’altro che marginali è quello di Blake Griffin, che per una tendinosi non riconosciuta per tempo ha subito una lesione che lo ha costretto a saltare quasi tutta la stagione 2016 e probabilmente a essere meno esplosivo, più facilmente soggetto a problemi futuri e, in sostanza, un giocatore meno decisivo per il resto della carriera.
Per i medici degli Spurs con un’infiammazione si può giocare, si veda la fascite plantare che ha tormentato Duncan (perchè sempre lì si va a finire) a partire dalla metà degli anni 2000, e per questo Kawhi è stato dichiarato pronto a scendere in campo, anche se non totalmente sano e guarito. Per i suoi medici personali una tendinosi va trattata con estrema cautela, perché la carriera è più importante di una singola stagione, quindi si è deciso di tenerlo a riposo. Da questo braccio di ferro sono nate accuse incrociate più o meno velate, con l’ormai famigerato zio Dennis Robertson nella parte del cattivo e gli Spurs che, più per orgoglio che in quanto provvisti di senno e ragione, hanno continuato a mostrare Kawhi al pubblico come un giocatore che poteva essere schierato e che aveva deciso di non giocare di sua spontanea volontà, fino alla situazione attuale in cui in teoria parrebbe che Leonard, anche se non direttamente con la sua voce, abbia chiesto la cessione, o forse no.
Secondo le informazioni riportate da Adrian Wojnarowski di ESPN, Marc Stein del New York Times e Sam Amick di USA Today - che, a margine, sono gli unici newsbreakers in cui riporre totale e incondizionata fiducia per seguire l’evoluzione della free agency insieme a Shams Charania (Yahoo) e David Aldridge (NBA) - la situazione parrebbe ormai delineata: gli Spurs stanno prendendo in considerazione le offerte di almeno quattro squadre, cioè Clippers e Lakers, forti della preferenza espressa, o forse no, da Kawhi per Los Angeles, a cui si aggiungono Celtics e Sixers.
Fissare un prezzo per Leonard potrebbe essere complicato: ad abbassarlo contribuiscono l’imminente scadenza di contratto (player option sul 2019-20) e quindi il rischio che lo scambio si trasformi in un costosissimo affitto di una sola stagione, e i dubbi sulle condizioni fisiche del giocatore, anche perché bloccare a causa del responso negativo degli esami medici uno scambio su cui già c’è accordo è sempre possibile, ma potrebbe avere ripercussioni antipatiche per tutte le squadre e tutti i giocatori coinvolti.
Ad alzarlo invece potrebbero provvedere un’eventuale asta al rialzo tra le squadre interessate, la resistenza degli Spurs che non hanno alcuna intenzione di svenderlo e, soprattutto, la fretta che potrebbe muovere Sixers e Lakers, perché assicurarsi Kawhi potrebbe spianare la strada all’arrivo di LeBron, o forse no. I Lakers al momento starebbero ragionando sulla possibilità di offrire Brandon Ingram e una prima scelta futura, più eventualmente un’altra ottenuta da uno scambio in cui assorbire un contratto pesante in scadenza, ad esempio dai Nuggets che dopo il rinnovo al massimo salariale di Jokić, 147 milioni in 5 anni, si trovano di fronte a circa 160 milioni di spesa per la prossima stagione tra contratti e Luxury Tax (oltre 20 milioni) ed avranno la necessità di cedere almeno un contratto tra quelli in scadenza 2019 di Kenneth Faried e Wilson Chandler per ridurre i costi.
I Sixers paiono invece intenzionati a presentare una proposta basata su Dario Šarić, Robert Covington e la prima scelta 2021 dei Miami Heat appena ricavata dallo scambio effettuato durante la notte del Draft con i Phoenix Suns. Entrambe le soluzioni sembrano abbastanza lontane da quanto richiesto da San Antonio, ma la fretta di chiudere entro pochi giorni potrebbe portare soprattutto i Lakers ad arricchire sensibilmente il proprio pacchetto, mentre Celtics, che hanno ottimi asset come Jayson Tatum e Jaylen Brown ma nessuna intenzione di cederli, e Clippers, che non hanno da offrire nulla di particolarmente valido, attendono che il prezzo si abbassi, la concorrenza diminuisca e gli Spurs si trovino più vicini alla data di scadenza del contratto di Leonard.
L’altro snodo fondamentale: cosa fa Paul George?
Esaurito l’argomento di più stretta attualità, restano comunque diversi scenari parecchio interessanti: per restare ancora nell’ambito di ciò che riguarda LeBron, Paul George ha comunicato di avere declinato la propria player option e di essere quindi un free agent senza restrizioni a partire da domenica. La scelta è quasi esclusivamente di carattere economico, dato che il massimo salariale cui può ambire è di 30.4 milioni (se le voci che vedono il Salary Cap fissato a quota 101 milioni dovessero essere confermate) e che, rimanendo nel contratto ne avrebbe guadagnati poco più di 20. Quindi le possibilità che resti a Oklahoma City sono ancora tutt’altro che marginali, probabilmente con un contratto da un anno più ulteriore player option (per poter essere nuovamente free agent tra 12 mesi) oppure un 2+1, così da raggiungere le 10 stagioni di esperienza NBA e quindi la possibilità di accedere al più alto scaglione di massimo salariale, pari al 35% del Cap nel 2020.
Le concorrenti per i Thunder dovrebbero essere i Lakers, che una stagione fa parevano una destinazione quasi automatica, e in secondo piano i Sixers, cioè le due squadre che hanno la possibilità di attrarre i free agent di primo piano in contesti competitivi da subito (Phila) o grazie alla possibilità di muoversi sul mercato per ottenere giocatori utili (Los Angeles), e soprattutto le due squadre che possono trovare un modo di accogliere uno tra George e Leonard, o addirittura entrambi, insieme a LeBron.
Se Paul George dovesse decidere di continuare con i Thunder Sam Presti si troverebbe di fronte ad un dilemma che è già pressante in ogni caso: che fare di Carmelo Anthony? Melo ha contratto da 28 milioni per la stagione 2018-19 e una no-trade clause, che rende impraticabile la possibilità di inserirlo in un salary dump, sempre ammesso si trovasse un acquirente. La prima opzione è sempre quella di cercare un senso tecnico alla sua presenza, ma davanti alla prospettiva di spendere oltre 100 milioni di dollari in Luxury Tax non è da escludere che si valuti anche l’ipotesi del taglio, magari con applicazione della Stretch Provision, che prevede che l’impatto sul cap di un contratto tagliato venga spalmata sul doppio più uno degli anni originari di contratto, quindi da 28 milioni su singola stagione a poco più di 9 per tre anni, con risparmio nel 2018-19 di circa 90 milioni tra tassa e stipendio.
La scelta però non può prescindere anche da un’altra valutazione, cioè l’impatto che il taglio di Melo potrebbe avere su Paul George e Russell Westbrook, dato che storicamente i giocatori gradiscono poco i proprietari non propensi a spendere: a questo punto delle rispettive carriere, considerano Anthony un peso o un aiuto? Auguri alla dirigenza di Oklahoma City.
Il grande spauracchio delle proprietà: evitare la luxury tax
D’altra parte, premesso che ogni mercato e ogni portafoglio fanno storia a sé, è anche perfettamente comprensibile che i proprietari gradiscano poco pagare la tassa, specie in presenza di risultati sportivi non all’altezza delle attese. Oltre a Thunder e Nuggets, in condizioni simili si trovano squadre da seguire con grande attenzione se si è alla ricerca di un movimento inatteso, una cessione dolorosa o la possibilità che l’intero roster venga rivoluzionato con Hornets, Pistons, Raptors, Blazers e Wizards su tutte.
Quale sia il livello di disperazione di certe franchigie è testimoniato dalla prima operazione completata dal nuovo GM di Charlotte, Mitch Kupchak, che pur di cedere Dwight Howard, cioè di levare la sua presenza tossica dallo spogliatoio e scendere sotto il livello di guardia con il monte salari, ha accettato di accollarsi il biennale di Mozgov, uno dei peggiori contratti mai firmati e che però in qualche modo è già stato scambiato due volte, perché non esiste contratto di cui non ci si possa liberare, ma solo prezzi molto alti da pagare per farlo.
Toronto e Portland sono difficili da leggere, perché è difficile capire il peso specifico di uno sweep subito ai playoff rispetto a una regular season giocata nettamente meglio delle attese e viceversa, ma per quanto complicato non è escluso che possano essere protagoniste di movimenti significativi e che possano includere tutti o quasi (Damian Lillard, primo quintetto All-NBA, dovrebbe essere al sicuro), magari addirittura trovandosi come partner in uno scambio per rimescolare in qualche modo le carte.
Cedendo Marcin Gortat per Austin Rivers, entrambi con contratto in scadenza 2019, Washington ha dato più senso alla propria rotazione sugli esterni e sistemato la frattura più netta che spaccava lo spogliatoio, allontanando il centro polacco dal suo ormai dichiarato nemico John Wall in uno scambio di scocciature reciproche con i Clippers, ma è ben lontana dalla soluzione dei propri problemi di profondità. Rivers è reduce dalla miglior stagione della carriera, ma L.A. sotto la guida di Jerry West ha quasi ultimato il proprio processo di rivoluzione e ha risolto la situazione alla radice per evitare che papà Doc potesse dare spazio al figlio Austin a discapito della marea di guardie che compongono in questo momento il roster dei Clippers, anche senza considerare Milos Teodosic (in odore di taglio) e Avery Bradley (free agent che pare interessare ai Memphis Grizzlies).
L’ultimo rimasto della precedente era è DeAndre Jordan, che deve decidere se esercitare la player option e che sembra comunque destinato a lasciare la California, con possibile destinazione Dallas che ha spazio salariale, la necessità di un centro e il desiderio di mettere insieme una squadra competitiva da subito per offrire a Dirk Nowitzki un ultimo ballo all’altezza e per pagare a breve e in modo il più possibile indolore il debito di una scelta che ha nei confronti degli Atlanta Hawks in seguito allo scambio per Luka Dončić effettuato al Draft.
L’estate difficile dei restricted free agent
Insieme agli Indiana Pacers - che tagliando i contratti parzialmente garantiti di Al Jefferson, Bojan Bogdanović ed eventualmente anche Darren Collison possono liberare circa 20 milioni in spazio sotto il Cap e dovrebbero fare un’offerta ad Aaron Gordon - i Mavericks sono l’unica speranza o quasi di monetizzare per i restricted free agent di questa classe, cioè i giocatori scelti al Draft 2015 che le squadre che ne detengono i diritti possono trattenere, pareggiando le offerte altrui.
Per Clint Capela (Rockets) è quasi automatico che qualcuno offra un contratto al massimo o molto vicino al massimo e che Houston pareggi, di Gordon (Magic) si è già detto ed è plausibile che Orlando pareggi, per Julius Randle (Lakers) dovrebbe arrivare qualche offerta soddisfacente, per Marcus Smart (Celtics), Jabari Parker (Bucks), Zach LaVine (Bulls, forse nel mirino dei Kings) e soprattutto Jusuf Nurkić (Blazers) e Dante Exum (Jazz) è invece difficile immaginare cosa possa succedere anche perché, come evidente, l’offerta di giocatori con questa dinamica di contratto è superiore alla domanda, cioè alle squadre che possano essere interessate. Per tutti i restricted free agent c’è comunque la possibilità di accettare la qualifying offer, cioè l’offerta di base che la squadra è tenuta a proporre in cambio della possibilità di pareggiare quelle altrui, della durata di un anno, accompagnata da una no trade clause di fatto e il cui ammontare varia in funzione della posizione di scelta al Draft, restando comunque nei dintorni del salario medio NBA (8 milioni circa).
In una situazione comparabile ci sono anche diversi free agent unrestricted, come il citato Bradley o Trevor Ariza e Derrick Favors, che Rockets e Jazz vorrebbero trattenere e quasi certamente tratterranno molto volentieri e a condizioni vantaggiose per tutti, presumibilmente con accordi pluriennali intorno ai 10 milioni, cioè più di quanto troverebbero sul mercato dato che la MLE per le squadre sopra il Cap che non pagano la Luxury Tax parte da 8 milioni circa per un totale massimo di 36 in 4 anni.
E soprattutto DeMarcus Cousins, che a meno di sorprese da parte di Mavericks e Lakers rimasti a bocca asciutta rischia di essere costretto ad accettare qualsiasi offerta i Pelicans decideranno di inoltrargli o, al limite, valutare complessi scenari per una sign & trade; sicuramente si starà ben lontani dal massimo possibile su 5 anni, ma la vera partita si gioca sull’importo complessivo e sugli anni, perché la combinazione tra grave infortunio, buoni risultati ottenuti da New Orleans senza di lui e mercato povero è totalmente a suo sfavore.
Un ultimo cenno lo meritano le squadre sotto il Cap, ma senza possibilità di firmare giocatori di prima fascia né interesse per quelli di seconda: Atlanta, Chicago, Sacramento e forse Phoenix potrebbero indirizzare il mercato e le carriere di alcuni giocatori a seconda della volontà o convenienza di utilizzare il proprio spazio per fare offerta per uno dei restricted free agent nel limbo o per assorbire i contratti che chi al momento si trova in Luxury Tax o chi ha bisogno di liberare in funzione di altre manovre vorrà scaricare, ovviamente ottenendo scelte future per il disturbo.
Il che dimostra che anche le squadre che non sono direttamente legate a LeBron e che non potrebbero essere più distanti dai suoi interessi rischiano di rientrare comunque nell’equazione che lo riguarda. Perché per quanto si provi ragionare di tutto il resto, bisogna sempre passare da casa James.