A tu per tu con l'allenatore cinque volte campione NBA: la qualità umana, l'umiltà e la privacy di un uomo che nei Balcani si sente definitivamente a casa
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BELGRADO – "Oh, are you Italian? Mi dispiace molto per quello che vi sta accadendo in questi giorni. Stamattina ho visto le immagini del crollo del ponte a Genova. Sono rimastro pietrificato davanti alla tv". Coach Gregg Popovich è semplicemente così: empatico con chiunque. L’intelligenza superiore di trovare in un secondo un filo comune con chi gli sta di fronte. La volontà di metterlo a proprio agio. Il dispiacere sincero, gli occhi vivi, interessati. La sua mano sulla nostra spalla crea un contatto di fiducia, ci fa sentire come vecchi amici. "Era mai passato di lì?", domandiamo. "Sì, per andare a Portofino, terra stupenda. Ma quanto era vecchio il ponte? Oh my God". Impossibile parlare di Coach Pop senza parlare delle sue vere origini. Quelle di cui pochi sanno, su cui nessuno si esprime. Men che meno lui. Ma essere in Serbia, a Belgrado per il classico camp estivo organizzato dalla NBA "Basketball Without Borders" e con alcuni tra i più grandi del basket slavo, aiuta a capire meglio una delle personalità più complesse, influenti e rivoluzionarie dell’America sportiva degli ultimi 30 anni. "Tornare qui è sempre speciale. Non è facile perché vivo lontano, ma ogni volta che c’è l’opportunità di venire da queste parti, la prendo al volo. Se poi c’è la chance di vedere vecchi amici come Zarko Paspalj o Duda Ivkovic, con cui ero a cena ieri sera, è sempre una bella esperienza... almeno finchè non è Paspalj a guidare!". Paspalj in persona – leggendaria ala che contribuì a rendere memorabile l’ultima nazionale della Jugoslavia unita – ce lo conferma: "Ieri sera mi ha chiamato appena uscito dall’aeroporto e l’ho portato a mangiare e bere del buon vino in un ristorante sulle rive della Sava. Pop è uno di noi, impossibile negarlo". L’espressione inglese usata è "you can’t change your blood". La sensazione più intensa, raccolta qui alla Zarkovo Sports Hall dove il camp è organizzato, è che Gregg Popovich sia slavo nell’animo, non solo nel cognome. Le stelle NBA locali – attuali o in pensione – ne sembrano tutte convinte: Peja Stojakovic, ora assistente General Manager dei Sacramento Kings, mostra evidenti segni di eccitazione e orgoglio per avere nella sua capitale Pop. Dejan Tomasevic, favoloso lungo serbo fino al 2009, non ha dubbi a riguardo: "Pop è decisamente slavo. Guardate come allena, da sempre. È l'unico 'autorizzato' a farlo in un certo modo nella NBA. Guardate a quante cose ha in comune con un’altra leggenda come Obradovic, anche se la mentalità è differente. Ce l’ha nel sangue, e la cosa si riflette nel suo gioco: quando nel 2007 mi disse che metà della squadra sarebbe stata non americana, rimasi basito. Solo Pop poteva pensare una cosa del genere".
La naturale attrazione verso l'Est Europa
È questo – un DNA così differente dal resto dei colleghi, così internazionale, intriso di Serbia e Croazia, terre di canestri e sopravvissuti – uno dei segreti meglio celati del successo di Gregg Popovich? "Basketball is a global game": anche in questi giorni è stata la risposta classica sulla sua attrazione verso la pallacanestro non-USA. Un'illuminazione arrivata tanto tempo fa grazie all’invisibile forza di gravità esercitata dalle terre dei suoi genitori: anche così si spiega la laurea in "Studi Sovietici" all’Air Force Academy. Così come il rispetto e la curiosità verso paesi e culture agli antipodi durante la Guerra Fredda, prima nell’Est Europa girata con la squadra dell’Accademia e poi nella Turchia vissuta da ufficiale dell’Intelligence. Quell’innegabile vocazione interiore verso un mondo che stava oltre la cortina di ferro era esplosa già negli anni ‘80, generando la scintilla che da due decenni viene soprannominata “Spurs Culture”, modello all’avanguardia sull’international scouting. "Pop a fine anni Ottanta, alle prime armi come assistente di Larry Brown a San Antonio, era venuto a vedere a Dortmund un nostro torneo amichevole", ci racconta Paspalj, l’immancabile sigaretta e caffè nero sul tavolo. "Ovviamente era interessato a Vlade Divac, ma si era reso conto presto che eravamo tutti dei grandi talenti, e in qualche maniera si innamorò anche di me. Mi volle fortemente a San Antonio, quando ancora gli americani credevano che la pallacanestro fosse un loro affare privato. Credeva così tanto in me che mi ospitò per il primo mese a casa sua: se fosse stato lui head coach son sicuro che avrei giocato 15 anni nella NBA".
San Antonio scuola di vita
"Far sentire a proprio agio i ragazzi non-americani che arrivano a San Antonio è da sempre la nostra priorità", ricorda Popovich durante i pochi, inestimabili minuti concessi ai media a Belgrado. Magari non ospitandoli più direttamente a casa come successo con Paspalj, ma "mettendo la loro vita davanti alla pallacanestro, mostrandogli dove sono le banche, i supermercati, i quartieri dove vivere e le scuole, se hanno figli. Facendogli capire che li riteniamo molto più importanti del loro talento. Solo dopo si inizia a parlare di basket". E non solo, perché dopo inizia probabilmente anche una delle fasi che coach Pop preferisce di più: conoscere l’altro. Educarlo. Entrargli sottopelle. Un po’ come i dialoghi che in questi giorni sta avendo con i prospetti del camp. "Stiamo cercando di insegnare a questi ragazzini che il basket va giocato in un certo modo. Che cosa rende vera una squadra? Il non essere egoisti, ad esempio. Gli insegniamo come essere buoni compagni, come essere partecipi di the right way, facendogli capire che il gioco può regalare gioia. Molti di loro faranno diventare la pallacanestro il loro lavoro, quindi per me è importante che capiscano che è solo una parte della vita – e che le qualità umane valgono altrettanto". Una pedagogia che di nuovo riflette un’essenza balcanica, pragmatica. Democratica. Per Paspalj è palese: "Sono amico di Pop da 30 anni [nonostante il fallimento del suo unico anno agli Spurs, ndr] e lui con me è sempre stato schietto, diretto. A volte anche brutalmente onesto, con me come con chiunque altro, dalla stella della squadra all’ultimo panchinaro, dalle persone a cena con noi, ai miei amici. È questo che lo rende grande. Sa annusare in un modo unico le persone attorno a lui, e per questo sa scegliere buoni giocatori, buone persone". Opinione simile a quella di un grande allenatore come Andrea Trinchieri, presente al camp e affascinato dal personaggio: "Gli ruberei tutto. Ha un carisma pazzesco, oltre alla straordinaria capacità, con la sua ironia e intelligenza, di rendere facili le cose difficili a ogni livello, sul campo o in una relazione". Come ogni mente geniale, Pop ha personalizzato nei decenni quest’inclinazione ad abbattere rapidamente qualsiasi futile ostacolo – formale, caratteriale, sportivo – verso l’obiettivo finale. È lo "stress-test" con cui prima o poi si sono scontrati tutti i giocatori a San Antonio, quel "go Serbian" che punta a demolirti pubblicamente con quella peculiare aggressività tutta slava di far leva sui punti deboli. Serve a lui per realizzare presto su chi contare e a far capire ai giocatori i propri errori, per poi migliorare, individualmente e quindi poi di squadra.
Tutto il sarcasmo di coach Pop
È anche l’ennesimo indizio sull’influenza che i suoi avi hanno avuto, più o meno esplicitamente, sul suo carattere. Raymond Popovich, serbo, era una stella al liceo negli Anni ’30 a East Chicago, nell’Indiana. Il figlio Gregg Charles ha ereditato da lui i geni cestistici fondanti. Il divorzio dei genitori all’età di 10 anni lo aveva costretto però a spostarsi a Merrilville: pubertà e adolescenza con una madre croata, Katherine, lo ha "risparmiato" da quel complesso di superiorità che nella lingua serba ha addirittura una parola dedicata. L’umiltà, la semplicità d’animo che ancora oggi sono naturali, potrebbero essere nati proprio in quegli anni. Sicuramente lo è il proverbiale sarcasmo, affilato e brillante come ai tempi del liceo, dicono gli amici storici – e in grande spolvero anche nella tre giorni di Belgrado: "Il rapporto FIBA-NBA e i giocatori da liberare per le nazionali? È una domanda noiosa, non è nemmeno più una notizia, c’mon! Siamo qui per parlare di Basketball Without Borders o no?". Vero, ma una domanda su Kawhi Leonard? "No", la sua secca risposta. "Ci sono tanti prospetti interessanti, c’è qualche scout degli Spurs?". "Sono l’unico presente". "Come vede i Lakers con LeBron James?". "Sicuramente migliori". "Nelle Finals 2014 avete tirato quasi con il 100% nel quarto quarto…". "Io non c’entro nulla, stavo guardando come voi".
Un bunker chiamato privacy
Questa poteva essere la volta in cui Pop avrebbe potuto rinunciare al suo viaggio nei Balcani. La scomparsa della moglie Erin solo quattro mesi fa è un dramma che ovviamente deve aver cambiato l’allenatore di San Antonio nel profondo. Solo all’ultimo la NBA ha avuto una risposta positiva sulla sua presenza, ma in caso contrario nessuno avrebbe protestato. Diventa allora ancor più straordinario che nei giorni trascorsi a Belgrado l’allenatore da 21 stagioni a capo degli Spurs sia la persona più cordiale, sorridente e magnetica di tutto il camp. Tutti, a turno, lo cercano. Con lo sguardo, anche solo per due parole. Il santone più affabile dello sport pro USA non lesina battute, scherzi. Prende in giro l’intensità con cui Popeye Jones – assistente ai Pacers, molto sovrappeso... – difende sui poveri prospetti 17enni in post basso; si aggrappa alle braccia di Bobo Marjanovic, uno dei suoi preferiti, fingendo di cadere. È così che vive i propri tormenti interiori un uomo inscalfibile dal punto di vista privato. Se certe cose non si sapessero, non se ne avrebbe la più pallida idea. Persino Paspalj ammette che "nessuno conosce realmente le origini dei suoi genitori: ora ci sono serbi, montenegrini, ma una volta eravamo un’unica grande nazione. Credo rimanga difficile per lui capire da dove viene. Quello che però so è che non può cambiare le proprie origini, ed è per questo che ama così tanto venire qui e che le persone di questi posti si trovano così bene con lui, perché percepiscono che è uno della famiglia".
La breve dichiarazione rilasciata ormai 11 anni fa del suo uomo di fiducia, R.C. Buford, risuona oggi ancor più significativa: "Quest’uomo sta continuando a vivere il conflitto serbo-croato dentro di sé, a causa delle due diverse nazioni dei genitori", aveva detto il GM degli Spurs, ma nessuno non lo ha nemmeno mai notato. "Un retaggio del passato militare", aveva tagliato corto Pop, che non ha mai ammesso media o tv in casa propria e si imbarazza se qualcuno di esterno dimostra di voler sapere più cose sul suo conto. Sorprende a ogni modo che sia ormai arrivato vicino alla fine di una delle carriere più lunghe e ammirate senza che questi e altri interrogativi siano stati anche lontanamente risolti. Tra un po' – dicono nel 2020, dopo le Olimpiadi con Team USA – potrebbe essere libero di scomparire definitivamente dai radar. Dedicandosi a quello che realmente conta per Gregg Popovich. Onorando la memoria dell'amata Erin. Bevendo vini da urlo. Cercando di finire "L’Ulisse" di Joyce. E tornando da queste parti quando possibile, attirato come un lupo solitario di Jack London dal richiamo ancestrale della foresta balcanica.
Post scriptum | Finita la sessione di allenamento chiediamo a Pop se conosce i vini della Valpolicella. Gli occhi gli si illuminano: "Of course! Vino rosso, intenso, forse troppo forte. Isnt’it?". Ne potrebbe parlare per ore probabilmente, ma c’è altro da fare. I ragazzi del camp gli passano vicino, prima di iniziare l’allenamento lui aveva chiesto a tutti di dove fossero. Pop si sofferma con l’unico italiano presente, Edoardo Buffo di Tortona (A2). Gli chiede come vanno le cose a Genova. Gli dispiace, dice. Edoardo quando lo racconta ha gli occhi che luccicano. È l’ultimo segreto di Pop.