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NBA: Dwight Howard, quando il dolore alle natiche è una condanna

NBA
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Pranzi in piedi (o a letto), viaggi in aereo da sdraiato e un particolare angolo dedicato a lui in panchina: il lungo degli Wizards ha un bel po' di problemi da risolvere - anche lontano dal parquet - a causa di un muscolo molto delicato

GLI WIZARDS CONTINUANO A PERDERE E NON SANNO COME SMETTERE

WASHINGTON, TUTTO LO SPOGLIATOIO CONTRO PORTER

Dwight Howard non riesce più a trovare pace. Non tanto e non solo per il pessimo record raccolto dagli Wizards in questo inizio di stagione, battuti anche dai Mavericks e diventati così la seconda peggior squadra della Lega dopo i Cavaliers. No, oltre a questo l’ex centro di Magic, Lakers, Rockets, Hornets (e chi più ne ha più ne metta) è costretto a sopportare anche un fastidioso dolore al muscolo delle natiche, in una posizione che non gli permette di restare seduto senza provare enorme fastidio. Un problema delicato che lo costringe a particolari contorsioni anche a bordocampo: quando coach Brooks lo richiama in panchina, Howard non va a sedersi come tutti gli altri, ma resta sdraiato su un lettino (in realtà bello grosso, vista la dimensione) a pancia sotto per evitare di sovraccaricare la zona infiammata. “Non lo auguro a nessuno: le persone mi prendono in giro per la posizione del problema, ma in realtà mi impedisce di avere una vita normale”. Tanto che in cucina a casa resta poggiato al bancone, senza avvicinarsi neanche per sbaglio al tavolo. E soltanto nei momenti in cui lo sconforto prende il sopravvento, preferisce starsene poggiato di lato a letto e mangiare così, “trasformando le lenzuola in tovaglie” come con un tocco di genio ha raccontato da Fred Kats su The Athletic. “Il problema adesso è riuscire a togliere la salsa barbecue dalle lenzuola”, mentre il lusso di restare seduto se lo concede soltanto quando bisogna allacciare le scarpe. Sull’aereo con la squadra durante la lunga trasferta a Dallas (la prima della sua stagione, dopo aver saltato le sette partite d'apertura), ha preferito reclinare a 180° il suo sedile rendendolo piatto: “Non è il massimo del confort, ma è soltanto una fase di passaggio che spero termini presto. Al posto di concentrarmi sull’infortunio, cerco sempre qualcosa per distrarmi da quello sono costretto a sopportare”.

I nuovi tatuaggi e i problemi in campo degli Wizards

Un’enorme limitazione per quello che è stato a lungo definito “il più grande atleta della sua generazione”, visto che anche in campo il suo impatto fisico non può che essere inevitabilmente ridotto. Durante la sfida contro i Knicks di qualche giorno fa, coach Brooks ha disegnato uno schema per arrivare a sfruttare un lob al ferro per Howard, ma lui stesso ha chiesto all’allenatore di evitare, non essendo certo di riuscire a chiudere a canestro la giocata. “Coach, le mie gambe non sono del tutto a posto ancora”, e pazienza se contro New York si è dovuto faticare un bel po’ per vincere la seconda gara stagionale (a fronte di otto sconfitte). Nel frattempo il tam tam sui social si è concentrato soprattutto sui tatuaggi spuntati sul suo corpo, ritenuto da Howard per anni “un tempio” immacolato e che durante un viaggio in Cina in estate ha deciso per la prima volta di coprire con dei disegni di leoni sulle braccia. Una scelta “particolare” per il 32enne, alle prese con grattacapi ben più complicati in spogliatoio: “Nel primo tempo non c’eravamo con la testa”, sottolinea dopo aver incassato ben 70 punti dai Mavericks in due quarti. Una situazione raccontata con efficacia da Austin Rivers: “Abbiamo giocato in maniera svagata nel primo tempo, se scendi in campo ragionando così perdi. Non c’è nulla di piacevole nella sconfitta. Abbiamo pensato ‘Oh, finalmente abbiamo vinto. È scattato qualcosa ora perché siamo una squadra piena di talento’ e ci siamo rilassati. No, è dura vincere in NBA, a meno che tu non sia i maledetti Golden State Warriors. Per tutti gli altri è molto complicato. Devi imparare a essere competitivo ogni notte. Perché le cose sono cambiate nella ripresa? Perché abbiamo messo giù il c**o e iniziato a difendere”. Alla fine si ritorna sempre lì, come ha imparato a suo discapito anche Howard.