Un calo nei rating tv, l'eterno dilemma di una stagione (troppo?) lunga, il declino del fascino dell'All-Star Game e anche gli effetti dei contratti più corti che i giocatori utilizzano come arma per scegliersi la propria destinazione preferita. Adam Silver fa il punto su tutto
All’interno dell’ultima Sloan Sports Analytics Conference nessun intervento ha fatto più parlare di quello che ha visto per protagonista il commissioner NBA, Adam Silver. A colloquio per circa un’ora con Bill Simmons, il n°1 della lega ha discusso con grande onestà non solo gli ottimi risultati di una lega globale che fattura 8 miliardi di dollari all’anno, ma anche tutti quei temi che – nelle parole di Silver – “mi tengono sveglio la notte”. Non sono poche le aree in cui il commissioner NBA vede spazio per intervenire e migliorare ancora un prodotto che dopo il trentennio sotto l’egida di David Stern ha visto un’ulteriore crescita nei 5 anni con Silver a capo (che festeggerà l’anniversario fra circa un mese). Dal calo dei rating televisivi – soprattutto nella fascia demografica 18-34 anni – allo stato di salute mentale dei propri giocatori fino al fascino in declino dell’All-Star Game abbinato all’idea di modificare il lungo calendario da 82 partite della stagione regolare, Silver non si è sottratto al confronto, fornendo indicazioni importanti sulle direzioni future della lega.
Millennials, social & TV
La NBA vanta una delle fan base più giovani di ogni sport ma il cambiamento nelle modalità di fruizione dei contenuti delle nuove generazioni – che hanno ormai abbandonato il concetto lineare di un palinsesto tv – sta influendo in maniera notevole sui rating televisivi delle partite, in calo negli ultimi anni. Dal 2010 al 2018, sulla fascia chiave 18-34 anni – quella che Silver definisce “il nucleo fondamentale della nostra audience” – il calo sulle pay tv è stato addirittura del 50% e nello stesso periodo tanto ESPN quanto TNT hanno perso abbonati in quantità (14 milioni di nuclei familiari in meno per i primi, 11 per i secondi). Dall’anno scorso, i rating tv stanno facendo registrare una flessione dell’11%, figli di un nuovo modo di consumare NBA delle nuove generazioni: “Dalle ricerche che abbiamo fatto, sappiamo che l’interesse attorno alle gare NBA è molto più alto rispetto a quanto indicato da questi numeri”. Se i genitori sono quelli che ancora scelgono di pagare l’abbonamento ai network a pagamento che trasmettono le partite, i loro figli consumano sempre più NBA attraverso i social, che infatti sono una case history di grande successo per la lega. Ma è proprio qui che Silver vede un’importante area di possibile intervento: “Domanda e offerta non si stanno incontrando come potrebbero”, dice. “Su Twitter qualcuno dice: ‘Wow, Harden ne sta mettendo 60 in Rockets-Warriors’. Oggi non ci si può collegare live alla partita e vederla, mentre sono sicuro che molti lo vorrebbero fare [in particolare quelli che magari hanno scommesso sulla partita, il nuovo business da poco legale che incoraggia proprio questo tipo di fruizione spot, ndr]. Dobbiamo arrivarci, anche se capisco il punto dei nostri broadcaster che hanno pagato i diritti NBA per trasmettere in tv le partite”. Pagato e pagato tanto, va ricordato: 24 miliardi di dollari per 9 anni, in un accordo chiuso nel 2014.
Giocatori infelici
Un altro punto toccato con insistenza dal commissioner riguardo lo stato mentale dei giocatori della lega. Sulla scia delle rivelazioni pubbliche di Kevin Love prima e DeMar DeRozan poi – due superstar che hanno apertamente confessato i loro problemi di depressione, contribuendo così a stimolare un importante dibattito pubblico – l’attenzione sullo stato emotivo dei giocatori NBA è un tema sempre più attuale. “Non credo sia un problema che riguardi solo la NBA, quanto invece un problema generazionale che riguarda anche la NBA", spiega Silver. "I giovani americani sono sempre più isolati e anche i nostri giocatori sono sempre più spesso con le cuffie in testa, ognuno isolato dall’altro”. Un atteggiamento, dice il commissioner, “che rasenta la patologia”, in contrasto con quello spirito di gruppo che spesso contraddistingueva le squadre del passato: “I Bulls di Jordan erano una banda di fratelli – afferma Silver – mentre l’epoca in cui viviamo d’oggi è carica d’ansia. Sono ansioso io per primo, forse è per quello che tanti giocatori non hanno timore ad avvicinarmi per confidarmi i loro problemi”, ha scherzato il n°1 NBA. Che poi tornato subito serio ha però aggiunto: “Quando li incontro rimango sempre sorpreso di come spesso siano tristi, infelici. Molti di loro, in generale, non sono felici nonostante la fama e i soldi. Ci sono anche tante gelosie tra i giocatori stessi, ma quello che mi preoccupa di più è l’isolamento in cui vivono i nostri giocatori: ‘Da quando salgo su un aereo a quando mi presento all’arena per giocare, non vedo una singola persona’, mi ha raccontato con profonda tristezza una delle nostre superstar recentemente”.
Contratti corti, stagione lunga (e un nuovo torneo a metà anno)
L’idea di ridurre da 82 a 72 o 70 le partite di stagione regolare di ogni squadra è un qualcosa che il commissioner aveva già abbozzato in passato. Ogni franchigia, però, vedrebbe sparire 5/6 gare interne (e relativi incassi) così come ogni giocatore andrebbe incontro a una riduzione del suo salario (che è calcolato sulle gare disputate) di quasi il 20%. Non facile pensare che si possano vincere a breve queste resistenze, ma Silver amerebbe vedere un calendario più corto con la possibilità, ad esempio, di organizzare un secondo mini-torneo a eliminazione diretta da disputare o a inizio stagione o proprio durante la pausa dell’All-Star Game (evento che potrebbe trovare la sua collocazione anche fuori dagli Stati Uniti, in Europa o in Asia, per esplorare e capitalizzare su nuovi mercati). Un ultimo argomento affrontato dal commissioner ha riguardato poi la moda (dilagante) nella NBA di firmare contratti sempre più brevi, un qualcosa che la lega stessa aveva incoraggiato durante le ultime contrattazioni per il contratto collettivo. L’idea di Silver al tempo: le squadre non rimangono invischiate in pessimi contratti eterni, i giocatori che magari esplodono non vengono sottopagati a lungo. La realtà però si è rivelata diversa, con le superstar che hanno sfruttato questi contratti più corti per svincolarsi più facilmente dalle loro squadre e forzare poi la cessione verso destinazioni più gradite. “Forse è stato un errore”, ha ammesso Silver, scottato anche dal recente caso Davis: “Brutta dinamica, un bel pasticcio”, lo ha definito. Ma come ogni cosa migliorabile, il commissioner NBA è già al lavoro per trovare nuove e migliori soluzioni.