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NBA, Paul George e il (secondo) ritorno da ex a Indianapolis: "È sempre speciale"

NBA

Il n°13 di OKC ha chiuso con 36 punti e due palle perse decisive nell'ultimo minuto la gara persa in volata contro i Pacers: "Questa volta mi sono sentito accolto, soltanto alcuni hanno continuato a offendermi. Contro di loro non posso fare nulla" 

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Giocare a Indianapolis sarà sempre diverso rispetto alle altre partite di regular season per Paul George. Anche la seconda volta, dopo che la sfida del dicembre 2017 è un ricordo che il n°13 vuole scacciare dalla sua mente: “È sempre un’esperienza emozionante, perché ho investito tanto in questo posto – racconta George in un’intervista a The Athletic - Sarà sempre speciale, una partita in cui diventa difficile restare focalizzati e concentrati al 100%”. Rispetto allo scorso anno le cose sono profondamente cambiate: “Di sicuro – sottolinea il diretto interessato – ma ci sono sempre dei momenti in cui stai correndo nell’altra metà campo e ti capita di vedere qualche faccia conosciuta a bordo campo. E magari poi torni indietro e incroci lo sguardo con un altro che hai visto un sacco di volte in palestra. L’usciere, i ragazzi della sicurezza, i raccattapalle – sono tutti un po’ cresciuti. I ragazzi che entrano in campo durante le pause e schiacciano in maniera spettacolare. Tantissime persone con cui ho trascorso del tempo, che hanno condiviso con me un sacco di emozioni: siamo diventati grandi insieme”. La resa sul parquet però questa volta è stata di gran lunga superiore ai 13 punti con 3/14 al tiro di 15 mesi fa: alla sirena finale sono 36 punti per George, “rovinati” dalle due palle perse che sono costate ai Thunder una sconfitta nonostante le 19 lunghezze di margine. A fine partita in molti si sono fermati a stringergli la mano, a chiedere un autografo, a prescindere dal cambio di maglia: “Mi ritireranno la maglia? Ah, se mai lo faranno non avverrà prima di 30 anni. E poi non ne sono sicuro: onestamente non so se in maglia Pacers ho fatto abbastanza per meritare un riconoscimento del genere. Ma non è una decisione che dipende da me”.

Le offese dagli spalti e un’accoglienza meno fredda che in passato

Davanti allo spogliatoio i Pacers gli hanno fatto trovare un poster con la scritta “bentornato” stampata su una sua foto con la maglia di Indiana – commissionata dalla sua ex squadra – oltre all’affetto di tanti bambini che a lungo lo hanno atteso fuori dall’hotel dei Thunder e che sugli spalti hanno seguito la sfida con la sua maglia. I fischi non sono mancati dall’inizio alla fine, ma quelli fanno parte del gioco. A infastidire a pochi giorni di distanza dal caso Westbrook, sono state le frasi offensive pronunciante nei suoi confronti (e non soltanto simpatiche come chi ha cantato rivolto verso di lui "Zion ti odia", facendo riferimento all'infortunio del giocatore di Duke a causa dell'esplosione di una scarpa della sua linea): “Mi sono sentito accolto questa volta, un benvenuto più caloroso rispetto a quello dell’ultima volta. Continuo a non sentirmi a disagio con i fischi, ma quello che mi ha dato fastidio sono state alcune frasi volgari, in cui si faceva esplicitamente riferimento a mio nome. Altri invece stavano con il dito medio alzato verso di me… questa è stata la parte peggiore. Ripeto, non mi conoscono a livello personale, non sanno come sono da amico, padre o più in generale come essere umano. Mi conoscono soltanto come giocatore di pallacanestro. Quindi tutto ciò non è richiesto. Nel grande schema delle cose, non c’è nulla che loro possono fare in concreto contro di me e niente che io possa immaginare per cambiare le cose. Le cose stanno così e basta”. Nessun gesto di stizza o di risposta a chi ha continuato a bersagliarlo, soltanto una grossa delusione per l’ottava sconfitta nelle ultime 13 partite giocate da OKC. Uscire dal parquet con una vittoria avrebbe avuto il sapore della rivincita personale, vederla sfuggire di mano per colpa di un paio di suoi passaggi a vuoto sul più bello brucia molto di più di qualsiasi offesa piovuta dagli spalti.