La superstar degli Warriors torna sulla sua decisione (nell'estate 2016) di unirsi agli Warriors e non rinnega neppure per un momento la scelta: "Mi sono sacrificato molto, ho cambiato il mio gioco, ma ne valeva la pena"
DURANT CONTRO LA STAMPA DI SAN FRANCISCO
Non parla spessissimo, ma quando lo fa spesso dice cose interessanti. Magari controverse, ma interessanti. E proprio prima del via dei playoff, i terzi consecutivi che affronta con la maglia dei Golden State Warriors (i primi due conclusi con altrettanti anelli NBA e titoli di MVP delle finali), Kevin Durant ha rilasciato un’interessante intervista al sito The Athletic, quasi a voler riassumere un triennio in California che – come dicono in tanti – potrebbe anche esaurirsi al termine di questa postseason. “Quando ho scelto di venire qui e unirmi agli Warriors sapevo che avrei ricevuto ogni tipo di insulto. Non mi importava, per nulla. Volevo far parte di questa squadra. Perché non avevo mai giocato con tiratori del genere. Con giocatori versatili, capaci di muoversi in campo con grande intelligenza. Volevo far parte di questa squadra”. Senza curarsi della reazione di tifosi, critica e opinione pubblica: “È successa la stessa cosa a LeBron James [e il suo trasfertimento da Cleveland a Miami nel 2010, ndr], e anche lui ha accettato ogni critica e ogni insulto, indipendentemente da tutto”. Durant torna così sul ruolo da bad boy che in un certo senso ha dovuto recitare da quando ha scelto di lasciare Oklahoma City, ma la vera spiegazione di quel trasferimento, a sentire le parole del n°35 degli Warriors, è quasi mistica: “Lo spirito del gioco mi ha chiamato qui. Non i riflettori o la fama che deriva dall’essere il più forte. Non la legacy. Lo giuro sulla mia vita, tutte queste cose non significano nulla per me. Io voglio solo giocare la miglior pallacanestro possibile ogni secondo che passo in campo, e giocare a Golden State era l’opportunità perfetta per poterlo fare. Per venire qui ho lasciato tutto, ho fatto grandi sacrifici, ho cambiato il mio modo di giocare: valeva la pena fare tutto questo”. Sono arrivate le vittorie tanto inseguite, i titoli NBA e i premi di MVP delle finali, ma a scapito di qualche riconoscimento individuale – Giannis Antetokounmpo o Paul George potrebbero quest’anno rilegare Durant al secondo o addirittura al terzo quintetto NBA, ad esempio: “Una volta mi sarei infuriato, avrei voluto essere io al loro posto. Oggi non più: oggi apprezzo il mio modo di giocare a pallacanestro ancora di più perché sono sicuro del mio gioco. Ho visto da vicino James e lo ammiro per quello che fa vedere in campo ogni sera, apprezzo quello che sta facendo. Io oggi non ho bisogno di scendere in campo e tirare ogni possesso perché la gente si accorga di me. Mi sta bene così”. E se spesso in passato si era professato stanco di essere sempre considerato il n°2 – dietro a LeBron James – con la superstar dei Lakers addirittura assente dal palcoscenico dei playoff questa è forse l’opportunità giusta per essere riconosciuto da tutti come il miglior giocatore della lega. “I paragoni sono fonte di soddisfazioni. All’interno di questa lega, quando sei una star, è quasi naturale volersi sempre paragonare ai migliori avversari o a quelli che sono stati i più forti prima di te, i vari MJ, Kobe, LeBron, o anche ai nuovi rookie. Io invece voglio paragonarmi solo ai miei compagni di squadra, perché quando cerchi a tutti i costi un parallelo con gli altri non stai facendo abbastanza per diventare la miglior versione di te stesso”.