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Playoff NBA, la rivincita di Kyle Lowry: da eterno perdente alle finali NBA

NBA

Dario Vismara

La serie contro i Milwaukee Bucks rappresenta il culmine della carriera di Kyle Lowry, per anni considerato un "perdente" e ora fondamentale per le sorti dei Toronto Raptors. La sua gara-6 è un concentrato di ciò che lo rende un giocatore super intelligente, a volte contro i suoi stessi interessi

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La carriera di un giocatore NBA è piena di sliding doors, di porte girevoli che indirizzano la storia da una parte o dall’altra senza che sia pienamente sotto il suo controllo. Se tutto fosse andato come doveva andare, infatti, nel 2013-14 Lowry sarebbe diventato un giocatore dei New York Knicks. E non parliamo di una semplice voce di mercato, ma di uno scambio in fase talmente avanzata che Lowry aveva già preparato i bagagli, attendendo solamente la telefonata del suo agente per prendere il primo aereo verso la Grande Mela. Una chiamata che non è mai arrivata perché il proprietario dei Knicks James Dolan, già scottato dalle due trattative precedenti con Masai Ujiri – quella per Carmelo Anthony mandando a Denver Danilo Gallinari e quella per il nostro Andrea Bargnani di pochi mesi prima, cedendo una prima scelta poi diventata Jakob Poeltl –, decise di non rischiare di perdere un altro scambio con il neo General Manager dei Toronto Raptors. Così Lowry rimase e i Raptors con lui e DeMar DeRozan decollarono, conquistando cinque partecipazioni consecutive ai playoff e una finale di conference nel 2016. Questo è il lato positivo della storia di Lowry in Canada, ma ce n’è anche uno negativo: le tante sconfitte dolorose a fronte di regular season sempre ottimali; le brutte prestazioni e le brutte percentuali ai playoff; la sensazione che Lowry e DeRozan non potessero vincere insieme, che fossero due giocatori perdenti. Poi lo scambio del suo amico fraterno per arrivare a Kawhi Leonard (inserendo nello scambio lo stesso Poeltl ricevuto da Bargnani), la tensione mai nascosta con la dirigenza per quella decisione, così giusta nel merito e nei risultati ma ritenuta ingiusta per quello che il suo amico aveva fatto per la franchigia. Tutti eventi imprevedibili che lo hanno portato fino a qui, alle prime finali NBA della sua carriera.

La gara-6 della consacrazione di un talento particolare

“Per me vuol dire tantissimo. Ci è voluto tanto tempo per arrivare fino a questo punto: 13 anni nella lega, 7 stagioni qui” ha detto Lowry dopo la gara-6 che gli ha messo nelle mani il primo trofeo della Eastern Conference nella sua carriera. “Per diverso tempo ci siamo schiantati contro un singolo giocatore [LeBron James, ndr]. Poi ci è stata data un’opportunità quando lui se ne è andato, e ne abbiamo approfittato battendo una squadra molto forte come Milwaukee. Ora voglio godermi questo momento, ma non sono appagato”. La gara-6 di Lowry è stata un microcosmo della sua grande serie contro i Bucks: ogni volta che Kawhi Leonard ha dovuto tirare un po’ il fiato, il playmaker ha ripreso le redini della squadra e l’ha condotta con grande esperienza, mostrando il lato migliore del suo gioco cerebrale e associativo che a volte è andato fuori giri, mettendosi il bastone tra le ruote da solo con scelte non sempre ottimali (specialmente al tiro).

Le cifre – comunque ottime: 17 punti, 5 rimbalzi, 8 assist con 6/10 al tiro e 3/4 da tre con una sola palla persa in 41 minuti – non rendono veramente giustizia a quanto ha fatto, anche perché ha costellato la sua prestazione di piccole giocate fondamentali. Nel parziale di 26-3 che ha completamente ribaltato la sfida è stato Kawhi Leonard a prendersi il palcoscenico con 10 punti (8 per aprirlo e due per chiuderlo), ma è stato Lowry ad estenderlo ad inizio ultima frazione con Kawhi in panchina, senza tentare neanche un tiro ma regalando 4 assist per i compagni in 5 minuti e rubando un pallone, quello che ha mandato Leonard a schiacciare il +8 sulla testa di Giannis Antetokounmpo. Una giocata che è già nella storia dei Raptors in cui Lowry ha lasciato il suo zampino con la testa del playmaker navigato, aspettando il compagno a rimorchio e servendolo coi tempi perfetti per farlo schiacciare, ma aggiungendo anche un impercettibile spintina sul petto di Antetokounmpo per mandare fuori ritmo il suo tentativo di stoppata.

Una giocata di malizia ed esperienza, una di quelle che sfuggono inizialmente all’occhio ma caratterizzano un giocatore come Lowry, che da co-stella è sempre sembrato fuori luogo, ma che adesso – da playmaker impegnato più a mettere Leonard nelle migliori condizioni che a pensare a se stesso – è nella situazione ideale per dare il massimo anche nella metà campo difensiva. Nella serie contro i Bucks ha giocato a livelli stellari – chiudendo con 19.2 punti, 5.5 rimbalzi e 5.2 assist con il 51% dal campo e il 46% da tre punti –, ma soprattutto ha cancellato la narrativa che lo vedeva sempre crollare sul più bello, soffocare davanti ai difensori con le braccia lunghe, non essere abbastanza forte per il livello richiesto dai playoff. E lo ha fatto peraltro convivendo con un pollice della mano sinistra che richiederà un’operazione chirurgica non appena finirà questa stagione.

Magari Kyle Lowry contro Golden State disputerà una brutta serie, perché gli Warriors sono un avversario formidabile in grado di mettere in difficoltà chiunque e perché le finali NBA mettono ogni giocatore davanti a tutti i suoi limiti. Ma il risultato di quella singola serie non deve cancellare quanto Lowry ha mostrato contro i Bucks: un giocatore che di sicuro è tante cose, ma di certo non è un perdente come troppo spesso è stato etichettato.