Mr. Voice of Detroit Basketball nella Hall of Fame

"Count that, baby, and a foul!" – George Blaha "Se il volere che i Pistons vincano fa di me un tifoso, allora mi dichiaro colpevole" – George Blaha Blah-blah-blah. Nomen omen o quasi, non foss’altro per quelle origini slovacche – Blaha or Bláha : dal 23 ottobre 1976 è infatti lui la Voce dei Pistons, e per certi versi l’anima stessa del "Deeetroit Baaaasketbaaall". Quel suo immaginifico, personalissimo slang – "Count that, baby, and a foul!" , la sua frase-cult da tramandare ai posteri. Il vezzo di chiamare spesso per nome o soprannome i giocatori, e i suoi vari partner di microfono. La smisurata passione per il proprio mestiere. In radio o in tv, Blaha è stato – è – più che l’iconico commentatore del play-by-play dei Pistons. È, da mezzo secolo, il testimone oculare e l’io narrante – nell’accezione più letterale – della franchigia. E, più in generale, di basket e football a livello sia collegiale sia professionistico dello Stato del Michigan. Di partite dei Pistons, nei 46 anni trascorsi prima che gli venisse impiantato un triplice bypass, intervento che il 15 marzo 2022 gli salvò la vita e lo costrinse a saltare le ultime quindici della stagione, la loro storica prima voce ne aveva mancate – e solo per malattia – appena tre. Quando si dice fedeltà alla causa. Come ha scritto di lui James L. Edwards III per The Athletic, portale sportivo di approfondimento di proprietà del New York Times, "se non conoscete George Blaha, non conoscete i Detroit Pistons". O meglio, ribaltando il concetto: per conoscere i Pistons bisogna conoscere George Blaha. Per tutti, per sempre, 'Mr. Voice of Detroit Basketball'. Old School "Due cattolici della vecchia scuola", autodefinizione di John Beilein, dal 2 giugno 2021 senior adviser of player development ai Detroit Pistons, e riferita anche al suo antico sodale Blaha. Non fosse stato per l’ex coach, fra le altre, di Michigan University e Cleveland Cavaliers, che ci era già passato, e per la fede che da sempre li accomuna, il suo vecchio amico George quella volta avrebbe davvero rischiato di non farcela. Martedì 1° marzo 2022 i Pistons avevano perso 116-113 a Washington contro i Wizards e giovedì 3 dovevano giocare ancora in trasferta, a Toronto contro i Raptors. Il giorno di mezzo era il Mercoledì delle Ceneri. In genere, quando sono via con la squadra, la domenica e nelle feste di precetto i due vanno a messa assieme. E di solito nelle stesse chiese. Per fare un paio di esempi, come ha raccontato Omari Sankofa II sul Detroit Free Press, capita che a New York optino per la St. Patrick Cathedral di Manhattan e a Charlotte, nel North Carolina, per la St. Peter Catholic Church. Quel 2 marzo si stavano recando a ricevere le ceneri alla Holy Trinity Catholic Church al campus della Georgetown University, quando, camminando per quel chilometro in leggera salitella che porta alla chiesa, George aveva sentito una fitta al petto, e che gli veniva meno il respiro. Beilein, che nel 2018 si era sottoposto a un intervento di doppio bypass a cuore aperto, aveva già intuito tutto e lo aveva caldamente esortato a farsi subito visitare da un medico. Due settimane dopo, appunto il 15 marzo, Blaha era in sala operatoria per un triplice bypass. Gli esami cardiaci ne avevano infatti rivelato tre occlusioni coronariche che non potevano essere risolte con degli stent. L’intervento, come da prassi comunicazionale , era "perfettamente riuscito". Ma per George la stagione era finita. A terminarla al microfono per il play-by-play su Bally Sports, al fianco del color commentator Greg Kelser, sarebbe stato 'promosso' Johnny Kane. "Dopo tutti questi anni, alla fine anch’io sono dovuto andare in IR", aveva scherzato Blaha – usando con autoironia il gergo a lui più caro e abituale , nell’intervista rilasciata al telefono per il Detroit Free Press. "Sapevo di avere un compito da assolvere, quello di guarire. E che anche tutti gli altri ne avevano uno. Greg e Johnny hanno svolto un ottimo lavoro in telecronaca. Ho potuto seguire la squadra e constatarne la crescita, quest’anno. E continuo a stupirmi di quanto sia forte [il rookie] Cade Cunningham. Con una scelta alta al prossimo draft e i soldi dal mercato dei free agent, il futuro appare luminoso. Non vedo l’ora di tornare l’anno prossimo, il mio 47°". Tempo sei settimane, e Blaha era ormai prossimo al pieno recupero. Fra le varie attività della riabilitazione gli era stato prescritto di camminare per almeno 20 mila passi il giorno. Quale migliore occasione, unendo l’utile al dilettevole, per dedicarsi al golf, altra sua grande passione. Venerdì 29 aprile, un mese esatto dopo aver compiuto 77 anni, era già in azione, bello sorridente, sul green del Detroit Golf Club. All’inizio aveva dovuto limitarsi ai soli putter e wedge, ma già dal 1° giugno era di nuovo in grado di giocare il driver. Quegli ultimi mesi – lontano dal microfono e soprattutto dalla squadra – erano stati frustranti per Blaha, che però era più che grato e consapevole di quanto, tutto sommato, gli fosse andata bene. Le occlusioni coronariche erano state scoperte prima che potessero portare a un probabilissimo infarto. E in fondo, dopo la offseason, avrebbe potuto riprendere, con la sua normale vita di sempre, il proprio posto di prima voce radiofonica sia dei Pistons in NBA, sia degli Spartans della Michigan State University nel college football. Le altre metà del suo cielo sentimentale, più ancora che professionale, capaci di allontanarlo da Troy, nel Michigan, dove vive con la moglie Mary. Pure Detroiter Originario di Detroit, George Blaha cresce a Marshalltown, nello Iowa, prima di tornare nel natio Michigan a tredici anni, quando con la famiglia si trasferisce a Grayling. Insieme con il padre è presente alla prima partita che gli Spartans della MSU del football disputano nella Big Ten conference, in trasferta contro, fra tutte, proprio gli Hawkeyes della Iowa University. Era il 1953. Nel 1966, da laureando in economia alla Notre Dame di South Bend, nell’Indiana, consegue il Master in Business Administration presso la Ross School of Business della University of Michigan, storica rivale statale della MSU. Dieci anni dopo, succede a Don Howe come radiocronista della WJR per le partite dei Pistons. Il suo debutto NBA arriva il 23 ottobre alla seconda gara della regular season 1976-77, la prima in casa: sconfitta 97-98 contro gli Washington Bullets della superstar Dave Bing, il grande ex che a Detroit, ricambiato, aveva lasciato il cuore. Blaha esordisce in coppia con Tom Hemingway, il primo di una lunga e variegata lista di suoi color analyst tra i quali spiccano – a proposito di illustri ex Pistons – John 'Crash' Mengelt, lo stesso Bing , 'Kelly' o 'K.T' Tripucka e tre original Bad Boys come Vinnie Johnson, Bill per tutti ma per lui 'Billy' Laimbeer e Rick Mahorn. Infine, last but non least, il più recente e longevo 'Special K' Kelser, che quel nick se lo portava addosso già dal college, da indimenticato secondo violino di Magic Johnson nei Michigan State Spartans campioni NCAA a Salt Lake City 1979 sugli Indiana State Sycamores di Larry Bird. Ma anche più o meno quotati guru della panchina quali Mike Fratello, Hubie Brown, Ron Rothstein, Dick Motta, Ray Scott e John McLeod. O dell’etere come Stu Klitenic e i compianti Frank Beckmann e Dennis 'Skip' Macholz, ex tight end nel football e guardia nel basket ai tempi, lui pure, della MSU. George resta alla WJR dal 1976 al 1980, poi per due anni lascia cuffie e microfono a Paul Keels. Ma solo per modo di dire perché già dal 1978 e fino al 1997 si sdoppia con la tv, spesso la sera stessa , rimpiazzando Bob Wolff, in onda nel triennio precedente, su Channel 50. E a proposito, fino a tutti gli anni ’60 non è che la presenza della squadra in tv fosse scontata. Anzi, in certe stagioni era mancata del tutto. Nel campionato 1967-68 Tom Hemingway aveva commentato appena 13 partite, e solo grazie allo sponsor subentrato, un altro birrificio, stavolta la Carling. Poi più niente fino al 1971-72, con Ray Lane in coppia con un altro ex, Earl Lloyd, passato alla Storia più come primo afroamericano a giocare nella NBA che da coach dei Pistons . E, dopo un’altra annata di stop, le due con Dave Diles e le tre con Bob Wolff prima appunto dell’arrivo di Blaha. Le telecronache via-cavo – PASS dal 1984 e in seguito Fox Sports Detroit – fino al 2006 sono state invece appannaggio di Fred McLeod, col quale per anni lo stesso Blaha, che poi gli era succeduto alla Fox per le dirette nazionali, si è trovato fianco a fianco in postazione. Quanto a illustri compagni di microfono, pure Fred ne ha avuti parecchi: da quel Tom Wilson già divenuto presidente dei Pistons, e la cui vicinanza in cabina di commento non gli ha impedito di dare voce a opinioni fortemente critiche, ad altri ex NBA dell’area detroitiana come Tim McCormick e lo stesso Kelser, suo ultimo partner prima di lasciare la franchigia. Deceduto per un attacco di cuore a 67 anni il 9 settembre 2019, con quel suo vocione roboante Fred McLeod – originario di Strongsville, nell’Ohio – era divenuto uno di casa, quasi uno di famiglia, per i tifosi di Detroit in 24 anni di carriera, cominciata nel 1982 in radio alla WJBK e in tv come anchor a Channel 2, e proseguita dal 1989 come numero due dello sport a Channel 4. Lasciati nel 2006 i Pistons dopo 22 anni di play-by-play televisivo, Fred McLeod era tornato nel natio Ohio, dove per 13 anni e fino alla fine è stato il telecronista dei Cleveland Cavaliers in coppia con Austin Carr – ex di Cavs, Mavericks e Bullets – e nell’ultimo pure voce di preseason dei Detroit Lions della NFL. "Era una persona piena di entusiasmo, e nemmeno da telecronista l’ha mai perso", ha detto di lui Blaha. "Siamo stati insieme in tante arene nel corso degli anni... Quando sei entusiasta di ciò che fai e il tuo collega lo è altrettanto, ci si infiamma ancora di più. Ci sono persone, in questo ambiente, che riescono a mascherare il proprio coinvolgimento, ma io credo di non averlo mai fatto, e so che neanche Fred l’ha mai fatto. Per questo è stato così bello stargli accanto". Tra i tifosi dei Cavaliers sono entrate nel linguaggio comune alcune locuzioni diventate, negli anni, suoi marchi di fabbrica. Qui un breve compendio, non in ordine di apparizione bensì alfabetico: "A wine and gold winner", alla sirena finale dopo una vittoria dei Cavs. Riferimento da intenditori, è il caso di dirlo, si riferisce non solo ai colori sociali amaranto-oro di Cleveland ma pure all’International Wine and Spirit Competition. Citazione quantomai doc dell’evento ideato nel 1969 dall’enologo Anton Massel che ogni novembre, al Guildhall di Londra, premia con una prestigiosa medaglia d’oro i migliori vini e distillati di oltre 90 Paesi del mondo. "Convenient banking hours", per un canestro segnato di tabella, spesso detto con sarcasmo per sottolinearne la casualità. Di lì, il 'comodo orario di sportello' giocando sui termini bancario e 'bank shot', l’appoggio al vetro per due punti facili. "Good night , we’ll let ourselves out!", buonanotte , possiamo andarcene, al termine di una vittoria esterna dei suoi Cavaliers. "He shuffled his shoes!" , in caso di infrazione di passi, specie di un avversario. "He shut off his water!" , se un giocatore dei Cavs impediva un’entrata a canestro. "He’s gone video game" , per un giocatore in serata o dopo una serie di canestri particolarmente difficili. "I got your back!" , gergo poliziesco-militare per un canestro dei Cavs da rimbalzo offensivo. "Right down Euclid!" , per un’entrata al centro dell’area e, appunto, puntando direttamente a canestro. "Shakin’ the lake!", smuovere le acque – riferito a una poderosa schiacciata di LeBron James ai tempi dei Cavs, ma giocando sul fatto che la non splendida Cleveland – non per niente detta The Mistake by the Lake – è adagiata sulle rive del lago Erie. "Sweaty palms time" , l’equivalente del nostro 'palla che scotta' e cioè il finale di una partita punto a punto. "The bottom!" , per una tripla, meglio ancora se da lunghissima distanza. Fino al 1970, in sostanza prima dell’arrivo a Detroit della superstar Bob Lanier, la copertura tv live dei Pistons era stata, per usare un eufemismo, al più sporadica. Specie i primi anni. Bill Flemming della WJBK, dal 1957 al 1962 primo radiocronista dei Pistons e poi assurto a miglior fama alla ABC, non copriva che qualche partita qua e là. Ma in genere l’unica voce a copertura della squadra era una 'telefonica', come si chiama in gergo un collegamento al telefono, di resoconto della partita nello show di Al Ackerman a tarda serata. A Flemming era subentrato nel 1962 Don Wattrick, poi per poco – dal novembre 1964 sino alla sua dipartita, per un attacco di cuore, l’ottobre seguente – general manager della franchigia. Il microfono era poi stato di Milt Hopwood per sei stagioni, cinque da prima voce più, quando radio ufficiale divenne la WJR-760, quella del 1969-70 da analyst al fianco di Paul Carey. Per la prima volta nella storia dei Pistons, l’emittente aveva trasmesso tutte le partite casalinghe e questo grazie allo sponsor Stroh Brewery, storico birrificio cittadino fondato nel 1850 da Bernhard Stroh, figlio d’arte scappato dalla rivoluzione tedesca l’anno prima. Quando, nel 1973, Carey andò a far coppia con Ernie Harwell per commentare i Detroit Tigers del baseball MLB, i Pistons assunsero Don Howe, a cui, dal 1976, sarebbe succeduto appunto George Blaha. E le volte in cui Channel 50, l’emittente ufficiale dei Pistons, trasmetteva la partita, Blaha andava in onda in tv. E in radio toccava a Larry Henry della WWJ, erede di Paul Keels e Mark Champion, classe 1950, poi titolare del microfono nella stagione 1996-97. E tuttora ai Pistons, che segue dal 2001, dopo aver commentato i Tampa Bay Buccaneers e i Detroit Lions della NFL e i Detroit Fury di Auburn Hill nel football americano a otto. Come il suo contraltare Fred McLeod, anche se questi più a Cleveland che a Detroit, pure Blaha – altrettanto entusiasta ma forse meno informativo e didascalico – aveva un originalissimo repertorio di espressioni caratteristiche. Eccone alcune fra le più criptiche risalenti all’epoca dei Bad Boys originali, quelli del back-to-back 1989-1990 e riportate, con relativa esegesi, da Steve Addy nel suo The Detroit Pistons: Four Decades of Motor City Memories, tomone monografico sui primi quarant’anni della franchigia. "Joe D. two-timed, gets rid of it too Zeke for the flying finger-roll off the window! He fills it up!". Per i meno o non adepti: Joe Dumars spezza il raddoppio e serve Isiah Thomas, che in entrata appoggia di tabella. "Worm blows the bunny", il Verme spaventa il coniglietto, che sbaglia un comodo layup. "Reggie with the triple, he air-mailed it from 22! Pulled down by the Spider", per un’azione che altri avrebbero descritto magari con un più sobrio e asettico: 'tiro da tre di Reggie Miller dall’angolo. E rimbalzo preso da John Salley' . "Ai tifosi dei Pistons non servivano spiegazioni – scrive Addy – quando Blaha si riferiva ai vari 'Billy' , 'the Dobber' o John Eddie e il suo rock-set J, il jumper che John Long scagliava in punta di piedi . Quando in diretta menzionava V.J., tutti sapevano che si stava rivolgendo a Vinnie Johnson, poi suo partner radiofonico dal 1994. E quando diceva 'Kelly' o 'K.T.', gli ascoltatori sapevano che intendeva Kelly Tripucka, suo TV color analyst dal 1993". Oltre che per la passionalità delle sue teleradiocronache e i soprannomi di giocatori o compagni di microfono, Blaha è noto per l’originalità di certe sue espressioni, figlie anche – ma non solo – della sua formazione bucolica. E col tempo diventate iconiche in "uno stile unico di racconto – chiosa Addy – certo, negli inverni del Michigan, come una tempesta di neve, solo molto più gradito". E di sicuro ben più caloroso. Detto del suo marchio di fabbrica – "Count that, baby, and a foul", per un potenziale gioco da tre punti dei Pistons dopo un canestro più fallo sul tiratore, il tiro da tre è per lui "the long gun", una fucilata, sparata "from behind the long line", da dietro la lineona. Anche qui, volendo, dotta citazione: ricordate il fucile a canna lunga di Daniel Day Lewis, alias Nathaniel 'Hawkeye' Poe, nel film L’ultimo dei Mohicani? Era il long gun della Pennsylvania sin troppo popolare nel Nord America coloniale. E Detroit è ad appena una tripla dal confine con l’Ontario, Canada, sull’altra sponda del Detroit River. Una schiacciata particolarmente esplosiva con lui diventa "dynamite dunk". Un rimbalzo tirato giù dal soffitto è "off the high glass!", perché la parte alta, che sia di un tabellone o di una vetrata , è sempre la più difficile da raggiungere e pulire. E così via neologismeggiando. "I’ve lived by the words of the late legendary Dodger announcer Vin Scully: 'When you find something you love to do, you’ll never work another day in your life'". – George Blaha Non lavorare stanca "L’ho sempre visto davvero come il lavoro della mia vita – racconta Blaha in quel pezzo di James L. Edwards III per The Athletic – Volevo essere la voce di una squadra professionistica in una città 'operaia'. Poteva capitare nel baseball o nel basket, ma poi il baseball è un po’ cambiato e non l’ho più seguito tanto. Il basket s’è preso il centro della scena, per me. Adoro questo gioco. Sapevo che non mi sarei stancato di raccontare ogni partita, ogni giocata, ogni taglio, ogni passaggio e ogni tiro di tutta la stagione. E non mi sono mai annoiato. Sono stato molto, molto fortunato". In quell’intervista, pubblicata online il 20 marzo 2020, Blaha racconta anche di come l’aveva ottenuto, così giovane, il lavoro della sua vita. "Ho iniziato commentando qualche partita gratis nella Thumb area, nel Michigan. Poi ho trovato lavoro alla WABJ di Adrian, sempre nel Michigan, come capo dello sport e assistente del direttore del radiogiornale. Mi occupavo di tutto, dalle riunioni della commissione di contea su quali tipi di bovini potessero attraversare la strada ai fatti di cronaca nera della città. Ho anche avuto modo di fare il play-by-play nel football, e quella è stata un’ottima palestra per me. Poi mi sono trasferito a Lansing e ho continuato a occuparmi di news. Per fare le radiocronache però bisognava avere un lavoro diurno. Il mio obiettivo è sempre stato quello, ma in gran parte dei casi non si riesce a ottenere un lavoro del genere finché non si è affiliati a una franchigia sportiva professionistica. Ci sono stati vari passaggi tra quando ho iniziato e oggi. Ho imparato tanto. Ero il direttore del giornale-radio alla WJIM di Lansing e abbiamo vinto svariati premi. Avevo otto persone che lavoravano con me. Nel frattempo, seguivo un po’ il basket di high school, e il college football della Michigan State. Uno dei colleghi che avevo conosciuto, Tom Campbell, che poi sarebbe andato a lavorare là, aveva parlato a Frank Beckmann della WJR di un amico esperto di sport e aspirante radiocronista. Frank gli disse che l’unico posto disponibile era quello per il basket dei Detroit Pistons. Quando Tom me lo riferì pensai: 'È un sogno'. Gli mandai un mio nastro, ma si trattava di una partita di liceo. Io a livello universitario mi ero occupato solo di football, non di basket. Era la finale del campionato statale di Classe B del 1975: Holt contro Muskegon Heights. A quelli della WJR piacque e dissero che, all’epoca, era il miglior nastro che avessero mai ricevuto e che avevo buone possibilità di ottenere il posto. Mi sono sempre sentito quello che aveva più possibilità di farcela, ma c’erano ancora parecchi candidati. Ci sono voluti il resto dell’estate e l’autunno prima che tutto fosse finalmente ufficiale. Dovetti andare ad Ann Arbor per registrare un provino, facendo il play-by-play di una partitella durante il training camp. Herb Tyner, che credo fosse uno degli investitori di Bill Davidson , fu incaricato di ascoltare il nastro, lo ritenne abbastanza valido e mi fece il pollice alto. Di colpo, ero nella NBA". “La mia carriera è stata come speravo; lassù qualcuno mi ama. Quando ho ottenuto il lavoro, ho pensato: ‘Non voglio perderlo’. E per 49 anni sono stato fortunato” – George Blaha al Detroit News, 7 giugno 2025 Un bel salto per uno che sin lì aveva commentato solo i ragazzini del liceo. "Il gioco è talmente veloce rispetto a qualsiasi altra versione del basket, specie se, come me, passavi da quello di high school alla NBA. È meglio essere concisi e inserire ogni dettaglio se si fa la radio. Non è facile. Ecco perché sono nate alcune espressioni gergali che uso. Mi sembravano adatte alla situazione e non dovevo ricorrere a tanta verbosità nelle descrizioni. Questa è la sfida più grande per me. Bisogna evitare di restare così indietro da perderti un possesso. Può capitare. Ma, francamente, non si deve permettere che accada. Chi l’ha permesso, beh, probabilmente non è durato tanto". Si spiega dunque anche così, con la brevità, oltre che per la confidenza da assidua frequentazione, il suo continuo ricorrere ai soprannomi. A volte così originali e via via divenuti familiari da soppiantarne il vero nome del destinatario. Come 'Rip' per Hamilton o il solo 'Isiah' per capitan Thomas, giusto per fare degli esempi illustri. Anche qui, però, dietro c’è, se non proprio uno studio, perlomeno un’attenzione particolare al contesto in cui si lavora e per il pubblico a cui ci si rivolge. "Non lo facevo consapevolmente – si schernisce, o finge di farlo, Blaha – Guardandolo, pensavo a 'Rip'. Non credo possa funzionare a livello nazionale, ma va bene per partite della propria squadra, della propria città. Nel Michigan e nel Midwest la gente conosceva Richard Hamilton come 'Rip'. Ce n’erano diversi in squadra che chiamavo con i loro soprannomi, ma nella maggior parte dei casi lo facevo solo per nome. Quando sul pullman della squadra incrociavo Isiah Thomas gli dicevo: 'Ehi, Isiah, come va?'. E lo chiamavo così anche quando era in campo". E lo stesso valeva con i soprannomi: 'The Worm' per Dennis Rodman, 'The Microwave' per Vinnie Johnson, 'Dunking Darvin' Ham, 'Big Ben' Wallace e chissà quanti altri. Per quanto riguarda il suo personalissimo slang, c’è pure una componente di causalità figlia dell’emotività del momento. Per esempio, del suo tipico "Count that, baby, and a foul!" George nemmeno ricorda da chi né come o perché nacque. "Vorrei fosse così. Vorrei poter vantarmi che stavo per dire: 'Metti in conto anche questo, bello; e pure il fallo', ma c’era stato un tiro così enfatico – e non ricordo chi l’abbia sferrato né dove o quando, perché tante sono le notti innevate, a Cleveland, o a Washington D.C., che si susseguono una dietro l’altra – Ma quando mi uscì, mi piacque subito. E pensai che aggiungerci un 'baby' lo rendesse ancora più enfatico. E il bello è che non ho dovuto copiare nessuno, per questo". Casomai, in tanti hanno cercato di copiare lui, ma senza chance di poter anche solo avvicinarsi all’originale, inarrivabile testimone oculare, in cinquant’anni a bordocampo, di campioni e imprese altrettanto memorabili, ma anche di tempi lunghi e bui della franchigia. Specie i tre lustri tra i titoli in 'back-to-back 1989/1990 e quello, il terzo e ultimo, del 2004. "Dopo il ciclo dei Bad Boys sentivo che ci sarebbe stato un declino, perché erano stati talmente forti ed erano durati così a lungo... Jack McCloskey era stato un genio nel mettere insieme quel roster. Inoltre, era leale con quei ragazzi. Non avrebbe mai voluto smembrare la squadra a meno che non fosse necessario. Quel gruppo ha dominato per un bel po’ di tempo. E una volta che arriva una certa età, c’è sempre un calo significativo. È successo ai Lakers, ai Celtics e ai Bulls. Non è stata una sorpresa, per me. Anche il lavoro fatto poi da Joe Dumars è stato superbo. Ha preso un gruppo di ragazzi molto diversi, e non necessariamente famosi, e li ha messi assieme per farne, come ha detto Rasheed Wallace, i 'Migliori cinque in circolazione'. Si sono adeguati l’un l’altro come un guanto. Non so se ad altri prima di lui sia riuscito ciò che Joe ha fatto nel mettere insieme quella squadra. Non c’era un budget illimitato per il mercato e nemmeno due o tre superstar". Finali vinte a parte, ci sono anche altre partite che restano indelebili nella memoria di Blaha. "Ce ne sono un paio – ricorda – Di sicuro la prima che ho avuto il privilegio di commentare, quella dei Pistons contro i Washington Bullets nel 1976 alla Cobo Arena. Nel vedere Bob Lanier e Wes Unseld andare a saltare per la palla a due, capii subito che si era ben lontani dal basket delle superiori. Questa è una lega per uomini fatti e finiti. La partita in sé restava come su uno sfondo, ma sfuocato. All’epoca vivevo in periferia a Lansing e dopo la partita montai in macchina pensando di tornarmene a casa, ma finii a Grosse Pointe. Ero ancora lassù, perso tra le nuvole. Invece di impiegare novanta minuti per arrivare a casa, mi ci vollero quasi tre ore prima che mi rendessi conto di aver sbagliato strada. Un’altra è quella dei 73 punti di David Thompson alla Cobo Arena . Se non sbaglio, l’ultima partita di regular-season dei Pistons prima del loro trasferimento . È stato incredibile vedere cosa David T. seppe fare quel giorno. Dopo la partita, qualcuno svegliò George Gervin dal suo pisolino a New Orleans, dove gli Spurs stavano per giocare, e gli disse: 'Settantatré per David T.? Wowee!'". Sette ore dopo, al Superdome, 'Iceman' ne avrebbe messi 63 e, pur nella sconfitta per 153-132 dei suoi Spurs contro i Jazz, si sarebbe preso il titolo di capocannoniere del campionato. "Infine – conclude Blaha –, quasi tutte le partite di Bob Lanier al suo apice sono difficili da dimenticare. Ce n’è stata una, in particolare, a Portland contro i Trail Blazers: Bob Lanier contro Bill Walton, entrambi all’apice della carriera. Hanno ricevuto la loro parte di riconoscimenti, entrambi sono nella Hall of Fame, ma credo siano stati molto più forti di quanto la gente ricordi. I Pistons persero all’ultimo secondo. Fu un vero duello. Due grandi giocatori che sapevano il fatto loro". Spartan a vita Dalla stagione 2000-01 Blaha si è sdoppiato seguendo, per la radio, anche gli Spartans del college basketball. Quelli del football, invece, erano già il suo territorio dal 1971. "Ne commento le partite da così tanto che mi sento come se mi fossi laureato là", disse quando, nel 2002, fu nominato alumnus onorario dell’ateneo. "Sono uno Spartan da quando sono diventato amico dei loro coach, poco dopo aver comiciato a commentarne le partite. È iniziato tutto con George Perles, ma anche gli altri sono sempre stati molto disponibili. Gli assistenti, poi, sono stati straordinari. E non si tifa mai contro i propri amici, è questo il nocciolo della questione". La Detroit Sports Broadcasters Association, l’Assotelecronisti cittadina, di cui è attivo membro, gli ha conferito per "l’eccellenza nel commento sportivo", il Ty Tyson Award. Premio intitolato al pionieristico speaker dei Detroit Tigers di baseball nonché fondatore, nel 1948, della stessa DSBA. Blaha ha anche vinto per due volte il premio di Telecronista dell’anno del Michigan e dal 2008 è nella Sports Hall of Fame statale, anche se la cerimonia di induzione sarebbe arrivata non prima del 13 settembre 2013, a Novi. Nel 2017 i Pistons lo hanno omaggiato per i 40 anni di onorato servizio, ma George – pur già quasi ottuagenario – di ritirarsi non ha mai voluto saperne: "Finché sarò in grado di fare ciò che faccio, vorrei godermi il momento di essere ancora coinvolto nel basket. E per farlo non c’è modo migliore che commentarlo". Prima voce in telecronaca per l’emittente Bally Sports Detroit e, per le partite trasmesse in diretta nazionale, anche per la Fox Sports Detroit e in radio al posto del titolare Mark Champion, Blaha sembra continuare ad abbeverarsi alla fonte dell’eterna giovinezza. E la sua popolarità sembra prescindere da sorti e contingenze della squadra. Idem per certe sue espressioni divenute sinonimo delle sue telecronache ed entrate nel linguaggio comune di generazioni di appassionati. E che gli stessi tifosi gli intonano nel riconoscerlo per strada, da quelle più istintive e genuine a quelle magari un filino più studiate se non proprio artefatte. "Di sicuro 'Off the high glass!' – precisa –. Con 'Long gun!' invece cercavo di pensare a qualcosa che avesse senso per un tiro dalla lunga distanza. Questo accadeva prima dell’introduzione del tiro da tre punti. Quando ho iniziato io, nella NBA ancora non c’era. 'Long gun!' l’avevo pensata, prima di usarla. 'Off the high glass!' no, non l’avevo pensata, mi è venuta così. Era solo un altro modo, rapido, per dire qualcosa. E che non volevi farti scappare». "Un viaggio fantastico" Un po’ come accaduto a lui col lavoro della sua vita, in quel lontano 1976 con l’home opener dei Pistons contro i Bullets. "È stato un viaggio fantastico perché commento i miei due sport preferiti: il basket professionistico e il football universitario. Prima di cominciare, il mio lavoro preferito era fare il caddy", scherzava George, ospite d’onore dell’Optimist Club di Lapeer, Michigan, al pranzo del settembre 2011 al Gerlach’s Bowling Center. Impossibile, in un’avventura lunga mezzo secolo, elencare gli innumerevoli compagni di viaggio con i quali si è condivisa una parte del cammino, ma una menzione speciale Blaha l’aveva spesa per "Chuck Daly, forse il migliore in assoluto. Bravissimo a individuare i talenti e rispettato dai giocatori. Ancora non riesco a credere che non ci sia più". Ne resta però imperituro il ricordo, per ciò che il coach del back-to-back ai Pistons e del Dream Team olimpico di Barcellona 1992 è stato e ha rappresentato. E questo vale anche per chi, oltre a raccontarlo, ha avuto il privilegio di essergli amico. Perché per conoscere i Pistons, bisogna conoscere George Blaha. Con tutto il rispetto per chi a quei microfoni l’ha preceduto e per chi verrà, solo 'G.B.' è sempre stato e per sempre sarà 'Mr. Voice of Detroit Basketball'. Dal 5 settembre è ora ufficialmente anche nella Hall of Fame di Springfield, Massachusetts – indotto insieme con Clark Kellogg, Michelle Smith, Jeff Twiss e l’ex guru del mercato per la ESPN Adrian Wojnarowski – con tanto di Curt Gowdy Electronic Media Award per i servigi resi allo sviluppo e alla diffusione del basket. In mezzo secolo di meravigliose chiacchiere e distintivo: Blah-blah-blah. George Blah.

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Mr. Voice of Detroit Basketball nella Hall of Fame

Christian Giordano