Le due anime di Michael Phelps: il campione e l'uomo fragile

Ricordo la prima volta che l’ho visto. Era a Sidney, per le Olimpiadi del 2000. Nei 200 farfalla arrivò ‘soltanto’ quinto. È l’unica Olimpiade in cui non ha conquistato una medaglia. Ma mi ricordo di lui perché era il più giovane nuotatore americano a essersi mai qualificato per un’Olimpiade dal 1932. Aveva 15 anni. Eravamo abituati alle 'baby campionesse' ma i 'baby campioni' erano e sono tutt’ora delle mosche bianche. Era già chiaro fosse di un’altra categoria. Ma se chiudo gli occhi e penso a Micheal Phelps, la prima immagine che mi viene in mente è la prima volta che ho avuto l'opportunità di intervistarlo. È successo alle Olimpiadi di Londra, nel 2012, la mia prima grande competizione da inviata per Sky. Ricordo l’emozione che ho provato per quella intervista, anche se è avvenuta con tanti altri giornalisti presenti. Durante l’intervista il suo sguardo aveva un non so che di spaesato, come se si sentisse un 'pesce fuor d’acqua'. Spente le telecamere sono andata a ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per il mondo del nuoto e lì, per un istante, si è illuminato. Qualche giorno prima in zona mista Riccardo Re gli aveva detto "Ma lo sai che hai scritto la storia?" e anche in quel momento la sua reazione mi aveva colpito molto: si era commosso. Lo avevo già incontrato diverse volte da atleta ma non ci avevo mai parlato prima. Quando lo vedevo da collega mi sembrava quasi un ‘marziano’ e – vi assicuro - non ero l’unica a pensarlo. Tutti ci chiedevamo come facesse ad essere così forte e a ottenere quei risultati. In vasca non sembrava ‘umano’, ma una volta smessi i panni dell’atleta è cambiato tutto. Ha mostrato tutte le sue difficoltà, raccontato quanto fosse complicato superare i momenti difficili e raggiungere i successi che ha ottenuto. Dietro al grande campione c’era un essere umano molto fragile. E proprio questa sua doppia valenza mi ha sempre colpito. Quanto sia stato un grande atleta lo sappiamo tutti. È lo sportivo che ha vinto più medaglie olimpiche, non solo nel nuoto ma proprio tra tutti gli sport. Ha vinto 23 ori olimpici, un risultato che difficilmente qualcuno riuscirà a eguagliare o superare. Ma il suo più grande merito, per me, è aver mostrato una parte dello sport che nessuno conosceva prima. Una parte ‘nascosta’ degli atleti e del mondo sportivo. Ha avuto la capacità di far vedere le sue fragilità come essere umano. Nessun grande campione aveva mai avuto il coraggio di fare una cosa simile prima di lui. Ha acceso l'attenzione sulla salute mentale degli atleti, ha raccontato come l’avere il deficit di attenzione, cosa che da piccolo aveva rappresentato per lui un problema a scuola e con i coetanei, sia stato un suo punto di forza, e uno dei motivi che lo ha portato alla pratica sportiva. Ha umanizzato l'essere campione e così facendo lo ha avvicinato a tutti gli altri. E proprio per questa sua natura fragile, se dovessi indicare delle gare indimenticabili di Phelps, citerei… due sconfitte. Entrambe avvenute a Londra 2012. Arrivava a quell’Olimpiade da un periodo molto difficile. Era stato squalificato dalla Federazione americana per alcuni mesi nel 2009 e, anche se lo avrebbe raccontato solo anni dopo, aveva già dovuto affrontare periodi di depressione. Londra avrebbe rappresentato la sua ultima competizione. Esordì nei 400 misti e rimase fuori dal podio. Non era mai successo dal 2000 in poi. La seconda gara furono i 200 delfino, la gara che lo aveva fatto conoscere al grande pubblico e aveva sempre considerato la Sua gara. Sembrava imbattibile nei 200 delfino. In maniera sorprendente fu superato sull’ultima bracciata da un giovanissimo Chad Le Clos e perse. L’ultima competizione della sua carriera sembrava destinata a essere una debacle. Ma non si fece condizionare, tornò in vasca nei giorni successivi per vincere i 200 misti e poi i 100 delfino. Aveva saputo rialzarsi, trovando la forza anche nella sconfitta. È stato molto bello e significativo. Se penso a una sua vittoria indimenticabile, devo necessariamente citare la gara del 2008 nei 100 farfalla. Lui e il serbo Milorad Cavic arrivarono alla pari e c’è una foto famosissima che immortala questo momento. Al momento del tocco sulla piastra l’intero Water Cube rimase con il fiato sospeso in attesa del risultato ufficiale. In caso di vittoria sarebbe stato il suo settimo oro in una stessa Olimpiade e avrebbe eguagliato il record di Mark Spitz che resisteva dal 1972. Ci aveva già provato 4 anni prima, ad Atene, ma in quel caso Ian Thorpe e la staffetta del Sudafrica nella 4x100 stile si erano frapposti tra lui e la storia. L’oro nei 100 delfino lo avrebbe definitivamente consacrato il più grande nuotatore di tutti i tempi. Quel fotofinish avrebbe potuto cambiare la storia di Micheal Phelps. Cavic aveva stabilito il miglior tempo sia in batteria che in semifinale e nuotava alla corsia quattro. Aveva condotto in testa tutta la gara ed era arrivato con il numero perfetto di bracciate all’arrivo. Phelps aveva da sempre il suo punto di forza nella vasca di ritorno e dopo la virata era partito all’inseguimento della prima posizione. All’ultimo si era accorto che non sarebbe arrivato con precisione sulla piastra e aveva dovuto fare una mezza bracciata per aggiustare il tiro. Un gesto tecnico che richiede grande freddezza e lucidità ma che non sempre porta a un risultato positivo. Tutto sembrava essere a favore del serbo... e invece… beh, ha vinto Phelps, se no non staremmo neanche parlando. Il suo punto di forza in vasca era sicuramente la sua fisicità. Il suo corpo sembrava nato per nuotare, fin da ragazzino. Aveva mani e piedi molto grandi, il busto molto più lungo delle gambe, le braccia lunghe: tutte caratteristiche perfette per un nuotatore. Le articolazioni iper mobili che gli permettevano in acqua di compiere movimenti impensabili anche per alti nuotatori del suo livello. Il suo corpo si sposava con l’acqua e, non a caso, per lui la piscina è da sempre casa. Come ha raccontato lui stesso, fin da piccolo ha trovato la sua dimensione in acqua. Era preso in giro dai compagni di scuola per una fisicità 'fuori dal comune', ma in vasca si trasformava. Diventava il migliore. Non so se è stata la sua esperienza da ragazzo a spingerlo, una volta smessi i panni dell’atleta, ad aprire una fondazione con l’obiettivo di promuovere il rapporto con l’acqua nei bambini e nelle bambine che, per provenienza sociale o culturale, hanno difficoltà ad accedere alle vasche. Per lui il nuoto è diventato uno 'strumento' per aiutare i ragazzi. Trovare i campioni di domani è un aspetto secondario. Svolge un lavoro in continuità con quanto fatto già da atleta e con la sua 'umanizzazione' del campione. “E’ ok non essere ok” è diventato per Phelps il messaggio da portare al mondo dello sport in primis, ma in generale alle nuove generazioni. Anche i grandi atleti possono essere fragili. E non c’è niente di sbagliato. La sua fragilità non intacca minimamente il suo essere un campione. Anzi, la amplifica. I grandi campioni hanno 'superpoteri' che gli permettono di essere più veloci, più forti, più resistenti degli altri, ma considerarli supereroi nascondendo il loro lato fragile non rende loro giustizia. Lo sport non è solo prestazione, è anche umanità. La storia di Michael Phelps racconta tutto questo e proprio alla luce di ciò è davvero speciale.

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Le due anime di Michael Phelps: il campione e l'uomo fragile

Cristina Chiuso