La World Series tra Dodgers e Blue Jays è stata molto più spettacolare del previsto

Doveva essere la World Series che avrebbe rovinato il baseball. Lo aveva detto anche Dave Roberts, manager dei Los Angeles Dodgers, al termine della brillante vittoria contro i Milwaukee Brewers nella Championship Series: “Dicono che stiamo rovinando il baseball. Prendiamoci altre quattro vittorie e roviniamolo veramente!”. Per una volta anche il mite Roberts aveva scelto di provare a vestire i panni di Darth Sidious, guida di un Impero fatto di stelle dai contratti ricchissimi. È andato tutto secondo pronostico di inizio anno: i Los Angeles Dodgers sono diventati la prima squadra del XXI secolo capace di bissare il titolo dell’anno precedente regalando l’anti-favola perfetta. Eppure, nonostante la coincidenza tra premesse ed epilogo, è stata una delle World Series più emozionanti di sempre. L’errore in cui si è caduti molto in fretta è stato quello di considerare la squadra più forte, più ricca e più vincente al momento come quella cattiva. Ci sono cascati tutti, compresi gli stessi Dodgers che hanno preso quell’etichetta dall’esterno e hanno provare forzatamente a recitare quel ruolo. I Toronto Blue Jays sono stati abili fin dal primo istante a urlare al mondo: “Il re è nudo”, non farsi intimorire da un gruppo di stelle in missione per rovinare il baseball, mettere davanti a loro uno specchio e regalarci una serie da ricordare per sempre. I Blue Jays sono stati prima a due out, poi a dieci centimetri, poi ancora ad una palla in volo dal portare il titolo in Canada per la prima volta dopo 32 anni, senza successo. Dopo gara 5 sembrava essere ormai cosa fatta per Toronto: l’attacco dei Dodgers era uscito intontito dai lanci del ventiduenne Trey Yesavage, che l’anno lo aveva cominciato davanti a 327 spettatori in una partita di Singolo-A, il quarto livello delle leghe minori. Dodici strikeout in sette inning lanciati, una prestazione storica per il 6-1 finale. La folle maratona di gara 3, diciotto inning per trovare un vincitore, sembrava essere il punto di svolta della serie in favore di Los Angeles, le successive due una nuova virata: ora Toronto era avanti 3-2 nella serie e avrebbe giocato in casa. Sul volo da Los Angeles a Toronto i Dodgers hanno gettato la maschera. Lo sguardo perso nel vuoto di Mookie Betts, uno dei tre MVP all’interno del lineup losangelino insieme a Ohtani e Freeman, ripreso dalle telecamere in quella quinta partita era il segnale inequivocabile che quell’ultimo frammento di maschera da signori dei Sith era inevitabilmente crollato. Sembrava il messaggio di resa, invece, ancora una volta, si è caduti eccessivamente in fretta nell’errore di dare una lettura immediata. Atterrati in Canada ed entrati al vecchio SkyDome nel centro di Toronto l’immagine lasciata da una squadra messa alle corde è quella di una sfida di corsa sulle basi tra Hyeseong Kim e il cinquantatreenne manager Dave Roberts, superato dal suo giocatore e finito pancia a terra sul manto sintetico tra le risate di tutta la squadra. È solamente poetico pensare che la vittoria sia arrivata in quel momento, ma in quel momento di difficoltà la squadra ha scelto di essere sé stessa, un gruppo di diverse culture composto da personalità di bravi ragazzi, non abituati al trash talking, con un monte ingaggi annuale da 350 milioni di dollari guidata da un sergente buono, capace anche di essere capoclasse piuttosto che condottiero di ferro. Da quella corsa, da quella caduta, Dave Roberts non ha più sbagliato una mossa. La prima, la più semplice, è stata Yoshinobu Yamamoto. Nelle quattro partite vinte dai Dodgers in questa World Series il lanciatore giapponese è salito sul monte in tre di queste lanciando una partita completa in gara 2, sei riprese con un solo punto subito in gara 6 e il giorno seguente, senza riposo dopo 96 lanci, le otto eliminazioni che hanno consegnato il titolo ai Dodgers e Yamamoto all’immortalità con la conquista del meritato titolo di MVP delle finali. Nell’unica altra vittoria, l’infinita gara 3, Yamamoto si stava scaldando pronto a entrare in caso di necessità. A 27 anni il ragazzo di Okayama è il giocatore più vincente della storia: oro olimpico , oro al World Baseball Classic , oro al Premier 12 , titolo giapponese e due World Series vinte in due anni di Major League Baseball, quest’ultima con tanto di titolo di MVP. “Perdere non è un’opzione” aveva detto alla vigilia di questa World Series e, come un salvagente, tutta la squadra si è aggrappata a lui per restare a galla. Un’altra scelta facile, ma non scontata, è stata quella di Will Smith. Ricevitore che per 73 inning si è accovacciato dietro casa base per ricevere tutti i 1222 lanci effettuati dai pitcher dei Dodgers nel corso della World Series. Mai nessuno, nella storia, era stato così tanto impiegato durante la serie più importante dell’anno. Doveva essere scritto da qualche parte che sarebbe stato lui, tornato in squadra a playoff in corso dopo una frattura alla mano destra rimediata nel mese di settembre, ad avere l’ultimo squillo in una gara 7 in cui è successo talmente tanto che quasi è passato in sordina un momento che rimarrà inciso nella storia del gioco. Un fuoricampo in gara 7, agli extra-inning, per far vincere la tua squadra è ciò che tutti i bambini che girano una mazza di plastica nel giardino di casa sognano. Eppure non era mai successo nelle 120 precedenti edizioni della World Series, la storia attendeva un ragazzo del Kentucky per scrivere un nuovo capitolo in entrambe le fasi del gioco. Poi ci sono le intuizioni meno scontate, appoggiate da un’aria mistica che ha fatto andare tutto bene. Justin Dean, il cambio difensivo per eccellenza di Roberts, che in gara 6 ha la lucidità di alzare le braccia e chiamare l’attenzione degli arbitri per una palla che, in qualche modo razionalmente inspiegabile, si incastra sotto il muro dell’impianto evitando che Toronto pareggi la partita. Andy Pages, perso il ruolo da titolare per via delle pessime prestazioni in battuta che invece viene scelto proprio al posto di Dean in gara 7 per lo stesso compito e travolge il compagno Kiké Hernandez per evitare che la battuta di Ernie Clement diventi il punto dell’apoteosi canadese. Lo stesso Kiké, uomo sempre provvidenziale nei mesi di ottobre per i Dodgers, che in gara 6 vede e realizza il doppio gioco che chiude la partita quando nessun altro in campo lo stava immaginando. Infine, il nome che ha davvero cambiato il corso di una storia che sembrava ormai scritta verso un finale che in molti desideravano: Miguel Rojas. Il veterano venezuelano, tornato due anni fa a Los Angeles dove aveva iniziato la carriera nel 2014 prima di una lunga avventura d’amore a Miami con la casacca dei Marlins, è stato il nome a sorpresa scelto da Roberts per uscire dalla difficoltà. In gara 6 è stato decisivo nella difesa della seconda base, con giocate impeccabili compreso il doppio gioco finale, in gara 7 ha scelto di strafare. A due out dalla fine della partita all’interno di un lineup di campioni è stato l’insospettabile Rojas, battitore con una media in carriera di appena 7 fuoricampo ogni 162 partite, a spegnere come un interruttore il ruggito di Toronto portando la partita in parità. Pochi minuti dopo è stato nuovamente lui, senza equilibrio e con il corpo all’indietro a tirare una freccetta nel centro del bersaglio, il guanto di Will Smith a casa, per eliminare Kiner-Falefa , arrivato a centimetri e centesimi di secondo dall’essere il punto della vittoria. È stata solo in parte la World Series di Shohei Ohtani e Freddie Freeman, comunque importanti specie in gara 3, o di Mookie Betts, il cui singolo in gara 6 ha addolcito delle prestazioni deludenti. Roki Sasaki, l’ultimo brillante arrivato in inverno, è stato chiamato in causa meno del previsto . Una leggenda come Clayton Kershaw ha salutato il baseball effettuando solo otto lanci, in una situazione critica, nella terza partita. Gli eroi della squadra chiamata a rovinare il baseball sono stati un giocatore tornato dopo tanti anni con il ruolo di comprimario , un giocatore scelto al draft nel 2016 e cresciuto in casa . Yamamoto è stato pagato molto, un contratto da 325 milioni di dollari in dodici anni, ma le tante polemiche sull’opulenza del Dodgers fino a diciotto mesi fa erano polemiche sull’aver dato tutti quei soldi a un giocatore che non aveva mai effettuato un lancio in Major League Baseball. Senza dimenticare Max Muncy, autore di un fuoricampo vitale nell’ottavo inning di gara 7, scartato dagli Oakland Athletics nel 2016 e su cui i soli Dodgers hanno visto un potenziale che lo ha trasformato in un tre volte vincitore della World Series. Al termine della stagione 2026 scadrà il CBA, il contratto collettivo firmato da proprietari e giocatori, e andrà ridiscusso. Sono molti, tra appassionati e addetti ai lavori, a ritenere questo secondo successo consecutivo dei Dodgers la rappresentazione di un sistema malato. In MLB non esiste il salary cap e la possibile voglia di introdurlo potrebbe causare uno stallo ai lavori che metterebbe a forte rischio la stagione 2027. I Dodgers hanno oltre un miliardo di dollari “deferiti”, ovvero soldi che verranno dati ai giocatori solo al termine della scadenza del contratto . Negli ultimi quindici anni è solamente la terza volta che la squadra con il monte ingaggi più alto vince il titolo , ma questa volta fa più rumore che mai. Quale sarà il futuro è difficile prevederlo, sicuramente le parti si siederanno attorno a un tavolo rovente con tante carte sul tavolo e la stagione 2026 sarà altrettanto importante per percepire il termometro degli umori delle due parti. Mentre fuori dal campo si accumulano le nubi premonitrici di tempesta, il diamante dà sempre l’ultima parola. La World Series che avrebbe dovuto rovinare il baseball ci ha regalato una delle pagine più emozionanti della storia di questo sport.

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La World Series tra Dodgers e Blue Jays è stata molto più spettacolare del previsto

Nicolò Gatti