In NFL si giocherà un derby assurdo per il Thanksgiving

Clint Murchison Jr di cose ne aveva viste e sentite, nella sua vita. Ma che un miliardario venisse etichettato come ‘underdog’, come parente povero, quella no, non gli era mai capitata. Lo stupore, come raccontò esattamente 60 anni fa Bob Curran nel suo ‘The $400.000 quarterback’, nacque dall’incauta domanda di un giornalista che a Murchison, proprietario dei neonati Dallas Cowboys, chiese se non fosse preoccupato per la rivalità degli altrettanto neonati Dallas Texans, visto che gli americani amano tifare per i più deboli e i Texans venivano al mondo con uno svantaggio organico in quanto esponenti della nuova lega chiamata American Football League. Il miliardario underdog era il loro proprietario Lamar Hunt, figlio di uno degli uomini più ricchi del mondo, Haroldson Lafayette ‘HL’ Hunt, che nella prima parte della sua esistenza non aveva percorso una strada totalmente legale, tra presunti bordelli e bische clandestine, ma aveva poi messo assieme una fortuna spaventosa con il petrolio, grazie a intuito e coraggio, come quando aveva scommesso sulla produttività di un giacimento ancora da esplorare e che si era poi rivelato il più esteso di tutto il Texas orientale. Sistemato a vita, dato che ad un certo punto la produzione di petrolio gli aveva portato l’equivalente odierno di due milioni di dollari al giorno, aveva poi creato per Lamar e altri due figli una piccola compagnia petrolifera, la Penrod, mandandoli a studiare geologia ed economia perché avessero le credenziali per dirigerla: Lamar, però, fin da bambino aveva sviluppato una passione profonda, quasi irrazionale per lo sport, tanto che a quattro anni aveva voluto farsi portare allo stadio Cotton Bowl a seguire una partita di football universitario, e crescendo aveva seguito la trafila di qualsiasi altro ragazzo per giocare a football, pur non avendo un fisico particolarmente atletico. Dopo il liceo era tornato a ‘casa’ a Southern Methodist, la grande università situata proprio a Dallas, ed era riuscito a trovare un posto in squadra, cosa che peraltro nei college, che hanno rose numerosissime, non rappresenta di solito una grande impresa. Quando si era allenato con quelli… veri, però, la differenza si era notata: a pochi metri da lui, che era un tight end ovvero un misto di uomo di linea e ricevitore, quindi con necessità di essere robusto e agile al tempo stesso, si era schierato spesso Forrest Gregg, anni dopo protagonista nella NFL con Green Bay, e i due erano parsi provenire da due pianeti diversi per fisicità e rendimento, per cui dopo un po’ Lamar si era accontentato di stare a guardare e coltivare la passione così. Un po’ come, non molti anni prima, aveva fatto il futuro presidente Richard Nixon, che non era milionario e nemmeno benestante ma adorava il football e preso atto della sua inadeguatezza era diventato il primo tifoso, da bordocampo, dei suoi compagni di squadra. Terminato il college e intrapresa l’attività lavorativa con la Penrod, che non gli dava particolari patemi per il futuro, Lamar aveva continuato a tormentarsi per lo sport: avrebbe voluto vederlo, giocarlo, gestirlo, promuoverlo, specialmente il football. Voleva una squadra professionistica a Dallas, la città in cui era cresciuto. Ne parlava in continuazione con uno dei fratelli, Bunker, e si era anche incontrato con Bert Bell, il commissioner della NFL nonché ex proprietario dei Philadelphia Eagles, che però gli aveva risposto che non era previsto un ampliamento della lega, oltretutto alle prese con una grana chiamata Chicago Cardinals, squadra in netta crisi di risultati ma soprattutto di pubblico. Hunt aveva incontrato i proprietari Violet Bidwill, vedova di Charles che era stato l’azionista di controllo, e il suo secondo marito Walter Wolfner, imprenditore di St.Louis, ma la sua offerta di acquistare quote per poi eventualmente espandere il controllo e spostare la squadra a Dallas era stata respinta, o meglio era stato lo stesso Lamar a tirarsi indietro una volta accertato che la sua parte non sarebbe stata superiore al 20%. Aveva poi parlato con Branch Rickey, storico giocatore, allenatore e dirigente i baseball, l’uomo che nel 1947 aveva promosso nei Brooklyn Dodgers il primo afroamericano della Major League, Jackie Robinson: Rickey voleva creare una terza lega da aggiungere alla National e alla American League ma dopo aver soppesato i pro e i contro Hunt si era tirato indietro, anche perché pochi giorni dopo si verificò un evento davvero epocale, non solo in retrospettiva. LA PARTITA DEL SECOLO Il 28 dicembre 1958, allo Yankee Stadium di New York, i Baltimore Colts sconfissero i New York Giants 23-17 dopo un tempo supplementare, la prima mai giocata in una finale per il titolo della NFL, in quell’era che precedeva la creazione del Super Bowl. Partita memorabile, votata nel 2019 come la migliore dei primi 100 anni di NFL, ma partita che sarebbe stata una delle tante se non fosse stata trasmessa in diretta televisiva in tutto il territorio americano, ad eccezione di New York per non danneggiare la vendita di biglietti. La miscela di incertezza, eroismi del quarterback Johnny Unitas e visione di uno stadio pieno portarono ad una eco mai vista prima per una partita di football professionistico, che in quel periodo era ancora molto meno considerato e popolare di quello universitario, dominatore della scena sportiva assieme al baseball della Major League. Tra i circa 45 milioni di telespettatori per quella partita ricca di episodi, tra cui una curiosa invasione di campo di un tizio che pare fosse un dipendente della rete NBC mandato a interrompere il gioco per permettere la riparazione di un guasto che aveva sospeso la diretta, c’era anche Lamar Hunt, che a Southern Methodist era stato compagno di squadra di uno degli eroi dei Colts, Raymond Berry. Lamar ricavò ulteriore convinzione che il football fosse LO sport, che quello fosse davvero il momento per espanderne il raggio, in una nazione che era solo parzialmente coperta da squadre professionistiche e dunque tornò sul proposito di portare la NFL a Dallas, incontrando di nuovo Bell, che però gli fece un’altra volta capire che non solo la lega restava così com’era, ma che a suo avviso Dallas non era un posto adatto per il football pro. Prima di tutto, c’erano le università, popolarissime, tra cui Southern Methodist ma anche la non lontanissima Texas, e c’era il football di liceo, che in Texas aveva raggiunto una popolarità ai limiti dell’ossessione, per motivi anche sociali: nelle cittadine e nei paesini spuntati per ospitare i lavoratori del settore petrolifero e di estrazione gas naturali la locale squadra di liceo aveva sostituito il… duello in stile western come affermazione del primato di una sull’altra, e tra le sfide di high school del venerdì sera, quelle di college del sabato e una domenica che per moltissimi praticanti restava giorno del Signore non si vedevano spiragli. Anche perché la NFL a Dallas aveva fallito pochi anni prima: nel 1952 i fratelli Giles e Conner Miller acquistarono i New York Yanks, nati nel 1944 come Boston Yanks in un’altra lega poi trasferitisi, e li portarono a Dallas col nome di Texans, sperando di portare nel celebre stadio Cotton Bowl, che ogni due settimane si riempiva di 75.000 spettatori per le partite di SMU, un numero adeguato di tifosi. Ma in realtà i Texans non se li era filati quasi nessuno, anche per lo scarso appoggio dei media locali, ossessionati pur’essi, come i loro lettori e ascoltatori, dal football universitario e liceale: alla prima partita andarono 17.499 anime sparse nel vasto catino del Cotton Bowl, e dopo la nona sconfitta in nove partite, con perdite di circa 250.000 dollari , i Miller di fatto vendettero i Texans alla NFL, che li spostò a Hershey, in Pennsylvania, mantenendo il nome ma destinando loro come stadio di ‘casa’ quello di Akron, in Ohio. Dove il 27 novembre 1952, Giorno del Ringraziamento, vinsero la loro unica partita, 27-23, contro i Chicago Bears, di fronte a soli 2208 tifosi, peggior presenza di pubblico pre-Covid nella storia della NFL dal 1939 in poi, una circostanza resa ancora più imbarazzante dal fatto che in mattinata, nello stesso impianto, erano andati in 33.000 a seguire la finale statale di liceo, e trattandosi dell’Ohio, l’altro stato con una passione smodata per il football di high school, un numero tale non era una sorpresa. La NFL insomma di Dallas non voleva più sentir parlare, dopo quella debacle, non finita nei giornali di tutta America solo perché la lega non aveva ancora la popolarità che avrebbe assunto solo qualche anno dopo. C’era, poi, una curiosa circostanza, che sconfina nella cultura popolare e sociale: era solo da pochi anni che nel paese c’era la percezione che in Texas ci fossero tutti quei miliardari, perché di loro non si era occupato quasi nessuno, a livello mediatico. A lungo, allora come ora, per i giornali americani erano esistite solo le due coste, e tutto quello che è in mezzo era stato ignorato se non deprezzato o deriso. Nel 1948, però, le popolarissime riviste Fortune e Life avevano pubblicato articoli sulla spaventosa crescita di produttività e profitti dei pozzi petroliferi texani e sulla conseguente ricchezza dei loro proprietari, e anche per questo la NFL si era fidata dei fratelli Miller, salvo esserne scottata. Come disse qualcuno, successivamente, mai più successo che due imprenditori texani fallissero per mancanza di fondi, anche se è vero che nel caso specifico si trattava di ricchezza proveniente dall’industria tessile e non dal petrolio. Hunt nonostante tutto cercò in ogni maniera di convincere la NFL, anche nella persona di George Halas, il ruvidissimo fondatore dei Chicago Bears, che per opinione comune era una sorta di commissioner ancora più autorevole. ‘PAPA BEAR’ La storia porta a mitizzare molti personaggi del passato, e Halas, soprannominato ‘Papa Bear’ proprio per aver dato alla luce la squadra ed esserne stato sempre un padre-padrone, è stato tra quelli che hanno permesso alla NFL di nascere, prosperare e mantenere una forma economica e finanziaria dignitosa, tra una sparizione di squadra e l’altra. I suoi modi, però, erano ruvidi, decisi, spesso aggressivi, ancor più quando intravvedeva un pericolo per la sua creatura. Pur essendosi affacciato sulla scena cittadina molto tempo dopo i Cardinals, poco alla volta ingraziandosi giornali e radio aveva spostato l’equilibrio dell’attenzione verso i suoi Bears, grazie anche a giocatori leggendari come Harold ‘Red’ Grange: nel 1925 la presenza di Grange portò allo stadio 229.000 spettatori in 19 partite in giro per l’America, con la drammatica particolarità che quelle 19 gare furono disputate nell’arco di… 18 giorni, praticamente una corsa al massacro e all’incasso. Nel 1959 Halas si era rifiutato di cedere il suo terzo quarterback, Bobby Layne, ai Cardinals, che avevano disperato bisogno di un giocatore di nome per tirare su qualche tifoso: lo aveva sì ceduto, ma ai New York Giants e con la clausola che escludesse a vita un ulteriore passaggio ai Cardinals stessi. A fare la richiesta era stata Violet Bidwill: in cambio di Layne, si dice, i Cardinals avrebbero condonato il debito che Halas stesso aveva verso di loro, per via del prestito e dell’apertura confidenziale di una via di credito presso una banca che nel 1929 Charles aveva procurato a ‘Papa Bear’, intenzionato a rilevare le ultime quote del suo socio Dutch Sternaman. Traditi così, i Bidwill/Wolfner si arresero, decisero di lasciare Chicago ai Bears e trasferirsi altrove, ma c’era un problema: la NFL aveva previsto una tassa di trasferimento elevatissima, insuperabile con i mezzi societari. Ecco allora che partì una richiesta di aiuto, ma parziale: anche stavolta infatti gli imprenditori contattati, tra cui Hunt, avrebbero avuto accesso a quote di minoranza ma il controllo sarebbe rimasto alla famiglia. IN HOC LEAGUE VINCES Fu proprio tornando dalla Florida, dove la signora Violet e il marito si erano trasferiti definitivamente, che Hunt, in aereo, vide la luce. Chiese a un’assistente di volo una biro e un foglio e scrisse il corpus di una nuova lega, che si sarebbe chiamata American Football League: ‘Original 6: operatività per il primo anno’. Sei squadre, con tre amichevoli e 15 partite di regular season, giocatori scelti con ‘territorial draft’, ovvero con prelazione per quelli di college locali, incasso di ogni partita suddiviso 60%-40% tra squadra di casa e squadra ospite. Considerazioni prudenti nate dal fatto che, avendo esaminato i bilanci dei Cardinals, Hunt sapeva benissimo cosa un team pro avrebbe dovuto fare e non fare. Anche perché in tempi non sospetti, ovvero nel 1957, aveva fatto una rimpatriata con un altro compagno di college, Don McIlhenny, giocatore NFL con Detroit, e lo aveva tempestato di domande sul funzionamento e sullo spirito di una squadra professionistica, prendendo appunti su appunti. Lo racconta con tanti particolari, che ritrovate anche altrove in questo testo, lo scrittore John Eisenberg nel suo ‘Ten Gallon War’, ove i 10 galloni sono la… capienza media dei cappelli da cowboy indossati in Texas. A dire il vero, pur avendo di fatto creato una nuova lega, Hunt aveva ancora nella scarpa il sasso chiamato NFL, per cui fece un altro tentativo con Bell e Halas, che lo incoraggiò ancora a non perdere tempo in un impresa che mai sarebbe stata accettata dalla lega, perlomeno non prima della sistemazione del problema-Cardinals. Fu lì che il progetto AFL partì sul serio, e Hunt cominciò a fare il giro delle sette chiese per coinvolgere imprenditori interessati. Bob Howsam di Denver, già noto per aver creato i Denver Bears, squadra di baseball di minor league e buon successo, ad esempio. Max Winter, che con quel cognome non poteva che essere stato general manager di una squadra del Minnesota, i Lakers, prima del trasferimento a Los Angeles. A New York Harry Wismer, imprenditore-telecronista che aveva sposato una erede Ford - i magnati dell’automobile - ed era entrato in minoranza nei Washington Redskins ma si sentiva frustrato nelle sue ambizioni. E poi Kenneth S. Adams, detto Bud, e Barron Hilton. Accomunati tra loro, e con Hunt, dal fatto di essere nati ricchi: il primo, di Houston, 36 anni dunque nove più di Hunt, era figlio di un petroliere ed aveva giocato al college, il secondo, 32 anni, era il primo erede di Conrad, fondatore della celeberrima catena di hotel nonché bisnonno della prima influencer della storia, Paris, ma del resto non è che possa sempre andare tutto bene. Geniale a modo suo, Barron era un fanatico di aviazione e prese licenze plurime per varie categorie di aerei volò fino all’età di 84 anni, sette prima della morte avvenuta nel 2019 e contrassegnata, come per il padre, dal lascito del 97% della sua fortuna alla fondazione benefica fondata da Conrad. Praticamente tutti, a dirla come va detta, figli di papà, ma allo stesso modo degni se non altro della fortuna ereditata, visto che sotto di loro tutte le attività economiche della famiglia ebbero un incremento netto di produttività. Adams tra l’altro aveva conosciuto Hunt quasi per caso: non era scritto che tutti i miliardari texani si conoscessero, e a parlargli di lui era stati i Bidwill/Wolfner in Florida, menzionandolo tra i tanti che si erano fatti avanti per entrare in società. Incuriosito, Hunt lo aveva incontrato con la scusa di parlare del più e del meno, e solo una volta arrivato all’aeroporto di Houston, un attimo prima di scendere dall’auto, gli aveva buttato lì la proposta di creare una nuova lega di football professionistico. È anche curioso che Hunt, poi, fosse atterrato all’aeroporto di Love Field a Dallas… lo stesso che un Barron Hilton bambino aveva più volte raggiunto con la sua bicicletta per guardar decollare e atterrare gli aerei. SI PARTE Ottenuti i consensi, ottenuto l’uso del Cotton Bowl per la sua squadra, che avrebbe chiamato - con spregio della scaramanzia, vista la fine dell’omonima precedente - Texans, Hunt incaricò un altro amico-idolo, Davey O’Brien, di riferire della nascita della nuova lega a Bell, di cui era stato giocatore negli Eagles. Leggermente irritato per l’ennesimo contatto, Bell diede l’equivalente di una benedizione, ribadendo che la NFL non avrebbe aggiunto alcuna squadra. Ma ci fu una svolta improvvisa: una commissione del Senato degli Stati Uniti aveva aperto un’indagine sulla NFL, ritenendo che le sue pratiche violassero le leggi antitrust, e a Bell non parve vero, a fine luglio 1959, di poter dire ai senatori che non c’era nessuna pratica sleale o di blocco della concorrenza, tanto che l’anno dopo sarebbe partita una nuova lega. Quella di Hunt, appunto. Che vide così svelato il segreto, perché tale in parte era. Bell però salvando sé e la NFL aveva aperto un vaso di Pandora formato gigante, come solo nel mondo dell’imprenditoria americana può esserci: di fronte al pericolo di squadre in Texas, ovvero Dallas e Houston, Bell e ancor più Halas cambiarono idea dalla sera alla mattina e fecero di tutto perché la NFL arrivasse per prima là dove fino a pochi giorni prima aveva sentito solo puzza di petrolio e di arricchiti con cappelli giganti e stivali rumorosi. Arricchiti che però avevano più soldi di qualsiasi proprietario della NFL, e il pericolo era evidente. Halas convocò subito Hunt, Adams e Howsam a Chicago, e facendo quelli che per un gigante come lui potevano essere occhi dolci propose su due piedi a Hunt di aprire una squadra NFL a Dallas, ad Adams di fare altrettanto a Houston e a Howsam di attivarsi per l’acquisto di un team esistente, dato che la NFL non era interessata a Denver. Nel frattempo, magicamente, i Cardinals ottennero dalla lega condizioni più favorevoli e si spostarono a St.Louis, dove rimasero fino al 1988. I tre rimasero sconvolti, e chiesero di poter discutere senza la presenza di Halas, ma Hunt, più di tutti, non se la sentì di abbandonare i colleghi che aveva coinvolto nel progetto. Pochi giorni dopo, approfittando della presenza a Chicago di un grande numero di giornalisti, accorsi per la tradizionale ‘amichevole’ estiva tra i campioni NFL e una selezione di college, Hunt indisse una conferenza stampa e annunciò la fondazione della American Football League, che sarebbe partita nel 1960. DUE PER DALLAS Ora, stacchiamoci dalla storia della lega, per concentrarci su Dallas, tradizionale tappa delle partite del Thanksgiving Day. Perché fallito il tentativo di cooptare Hunt per coprire la metropoli texana, Bell e Halas si rivolsero ad un altro magnate, appunto il Clint Murchison Jr di cui all’inizio. Che di Hunt, incontrato per la prima volta a un festa a casa dello zio di Lamar, era per certi versi un clone: il padre era stato, come HL Hunt, un imprenditore ai limiti della legalità, arricchitosi con scommesse azzeccate su pozzi ancora da trivellare ma anche vendendo sottobanco petrolio in eccesso rispetto alle quote giornaliere previste dalla legge. Texano puro, attaccatissimo alle origini, una volta aveva scoperto una fonte di gas naturale e invece di venderla l’aveva convogliata con un gasdotto, costruito a sue spese, ad una città vicina per il riscaldamento delle case. Aveva poi creato un’azienda per i figli, ma Clint Jr, dotato di una intelligenza fuori dal comune, era andato ben oltre il recinto di bambagia che gli era stato preparato: aveva preso un diploma in ingegneria alla Duke University e un master in matematica al MIT, uno dei più impegnativi college del mondo, che era determinato a frequentare fin da quando aveva… 12 anni, e assieme al fratello John aveva espanso l’impero affidatogli dal padre, che viveva nel lusso ma aveva anche sempre rispettato il detto - da lui coniato - per cui il denaro “è come il letame: se lo accumuli fa puzza, se lo spargi diventa concime”, aforisma che mai sarebbe spuntato dalle labbra di un Rockefeller o di un Carnegie, cittadini dell’Est che del letame forse avevano una conoscenza molto vaga. Giocatore di football al liceo, aveva smesso per una brutta frattura ma - alla Hunt - era rimasto un appassionato al limite del fanatismo: aveva contribuito con 20 abbonamenti al fallito tentativo dei Miller di far crescere i Texans nel 1952, portava i figli a vedere SMU e Texas e li allenava con entusiasmo nella loro squadretta giovanile. Aveva provato ad acquistare i 49ers ma era stato fermato da Bell, che voleva tenere la squadra a San Francisco, e pure i Redskins, fermandosi di fronte alla pretesa del precedente proprietario di amministrare comunque il club per 10 anni. Ora arrivava l’occasione, ma Murchison scelse di contattare Hunt in un ultimo tentativo di portarlo dalla parte della NFL: tentativo difficile, dato che Lamar, venendo a sapere per puro caso della decisione della lega di espandersi a Dallas, aveva perso la sua tradizionale e ammirata calma. Ma non ci fu nulla da fare. Era guerra, non personale ma forse ancora più cruenta. La città, che fino a pochi mesi prima non era considerata adatta ad ospitare una squadra professionistica, ora ne aveva due. RICCHI SCEMI. FORSE Quando alla lega si aggiunse Oakland, il presidente, Wayne Valley, definì il gruppo dei fondatori ‘The Foolish Club’, più o meno il club dei fuori di testa. Ricchi scemi, si direbbe da noi, ma scemi non erano, anzi, e la storia di Hunt la dimostra, nel percorso che dai Dallas Texans portò ai Kansas City Chiefs. “Non so nulla di football, ma conosco la famiglia Hunt. E posso dire che se per caso la AFL affondasse, Lamar sarebbe l’ultimo ad abbandonare la barca ”. Ritratto perfetto per un personaggio che andò in guerra con tutte le risorse che aveva. E contro nemici forti: la NFL, Murchison e… HL Hunt, il padre, che scrisse addirittura lettere ai due quotidiani locali lamentando la nascita dei Texans e sostenendo che la loro presenza avrebbe danneggiato le squadre di college, sulle quali - dettaglio non di poco conto - continuava a scommettere somme di un certo peso. Hunt anzi provò addirittura a far parlare Lamar con Tim Mara, proprietario dei Giants, e James Breuil, che aveva governato Buffalo nella All-America Football Conference, sperando che gli facessero cambiare idea, ma con suo stupore i due invece lo incoraggiarono ad andare avanti, mentre i Cowboys mettevano in movimento tutta la loro forza, e quella della NFL: come general manager arrivò, su suggerimento di Halas, che aveva come missione personale e professionale che la Dallas della NFL fosse più forte possibile, Texas ‘Tex’ Schramm, un californiano col nome così perfetto che sulle prime Murchison pensò a una presa in giro: in realtà Texas era il suo vero nome, scelto dai genitori in ossequio alla parte d’America in cui si erano conosciuti, e al fatto che anche… il padre si chiamava così. Schramm era stato dirigente dei Los Angeles Rams e in quella veste aveva assunto come addetto stampa Pete Rozelle, il futuro commissioner della NFL. Poi aveva lavorato nel settore radiotelevisivo e aveva compreso il potenziale del football. Fu lui a costruire i Cowboys e renderli la squadra più importante d’America per oltre un ventennio: due finali NFL perse contro Green Bay nel 1966 e 1967 ma anche 20 stagioni di fila con almeno il 50% di vittorie, maggior numero di vittorie negli anni Settanta e cinque Super Nowl giocati nella decade, due dei quali vinti e tre persi per uno scarto totale di 11 punti. Murchison era il proprietario ideale, perché assumeva persone competenti e le lasciava lavorare con risorse economiche importanti e senza interferenze, a eccezione di un consiglio che diede a Schramm: “Io prenderei come coach Tom Landry, defensive coordinator dei Giants. Mi dicono che sia molto bravo”. Landry sarebbe stato sul campo l’architetto di quei grandi Cowboys, che oltretutto ebbero la possibilità, subito, di ottenere buoni giocatori dal draft. Mentre Kansas City doveva accontentarsi di scarti di squadre NFL o reduci dal campionato canadese. Ad allenarli, il 36enne Hank Stram, ex giocatore universitario a Purdue poi assistente allenatore anche a SMU, Notre Dame e Miami. Ma il problema non era la competitività sul campo, visto che i Texans partivano alla pari con le altre squadre neonate nella AFL mentre i Cowboys entravano in una NFL già forte, bensì lo spazio da conquistare fuori. E i Texans in teoria erano favoriti, grazie al tempestivo accordo di Hunt per la prima scelta sulle date in cui giocare nel Cotton Bowl, mentre i Cowboys avrebbero dovuto accontentarsi di quelle scartate. I fatti lo dimostrarono: 51.000 per l’ultima amichevole precampionato, 42.000 per la prima di regular season in casa, 37.500 per la seconda ma solo 21.000 per la terza, significativamente giocata nel pieno della stagione di college e liceo. Hunt e i suoi collaboratori facevano qualsiasi cosa pur di attirare gente: club per tifosi delle scuole medie, promozioni per… barbieri, che durante le sedute di barba e capelli potevano poi raccontare ai clienti le meraviglie mostrate dai Texans, iniziative in cui a insegnanti di liceo venivano affidati blocchi di biglietti da vendere in promozione, girando per la città su auto noleggiate all’uopo. Una delle insegnanti, Norma Knobel, divenne poi la seconda moglie di Hunt: al momento della sua scomparsa nel 2023, 17 anni dopo il marito, la signora Norma era una delle poche persone, e unica donna, ad aver assistito a tutti i Super Bowl. L’andamento dei Texans sul campo non andava di pari passo con la popolarità e le presenze: nel 1960 otto vittorie e sei sconfitte, nel 1961 6-8, nel 1962 11-3 e l’accesso alla finale, vinta nel ‘derby’ contro gli Houston Oilers di Adams, 20-17 dopo due tempi supplementari, partita diffusa in diretta televisiva e molto apprezzata. I successi però non si riflettevano nell’interesse del pubblico: quella stagione da 6-8 aveva creato disillusioni non disperse dal titolo vinto, i Cowboys nonostante un rendimento inferiore erano parsi squadra più tenace perché i loro avversari avevano una reputazione maggiore, al contrario delle squadre AFL che a molti parevano più spettacolari che concrete, e dopo aver fatto due conti e aver visto una media di soli 22.118 spettatori a partita Hunt, amaramente, nel 1963 decise di gettare la spugna. Anzi, portarla altrove: a Kansas City. Città collegata benissimo e facilmente con Dallas, cosa che gli avrebbe permesso di andare e venire con facilità, e il cui sindaco Roe Bartle aveva garantito condizioni eccellenti: ampliamento dello stadio, costruzione di un edificio per la sede e gli uffici e di un campo per allenamenti, vendita di almeno 25.000 abbonamenti. In realtà un consorzio di imprenditori locali non riuscì a collocarne più di 10.000, ma Hunt il 14 maggio 1963 annunciò ufficialmente il trasferimento, lasciando Dallas tutta ai Cowboys, che se la presero tutta. Aveva ancora la carica e la grinta di un tempo, ma aveva preso una decisione razionale. Accolta dal padre HL - ma forse è una leggenda metropolitana - con una frase folgorante: a chi gli aveva fatto notare come i Texans stessero perdendo un milione di dollari l’anno, il patriarca aveva infatti risposto “Ma davvero? Allora nel giro di 150 anni mio figlio non avrà più un dollaro”. HALL OF FAME Hunt, scomparso nel 2006, aveva una passione sportiva eccezionale: il football come ossessione, il resto come interesse accorato e infuocato. Non è un caso che ci sia stata la sua mano nella formazione di quello che oggi è il circuito ATP nel tennis, il calcio negli Stati Uniti, e che sia nella Hall of Fame di questi tre sport. Assieme ai figli dalla prima e dalla seconda moglie ha portato i Kansas City Chiefs, questo il nome scelto nel 1963, ad essere una delle colonne della NFL, dopo la fusione del 1970 con la AFL, e a vincere il primo Super Bowl proprio nel 1970, con Stram indimenticabile protagonista, microfonato da NFL Films. Pochi mesi dopo quel trionfo, ci fu, proprio per via della fusione, la prima sfida di regular season tra le due vecchie rivali cittadine: Dallas, destinata poi a perdere il Super Bowl contro Baltimore, vinse 27-16 a Kansas City, e successivamente ci sono stati solo 11 altri confronti, con i Cowboys in vantaggio 7-5. Ecco perché quando la NFL ha deciso di assegnare Kansas City come avversaria di Dallas, nella tradizionale partita casalinga dei Cowboys del Thanksgiving Day, la mente è corsa subito al passato: al di là della forma attuale, non è mai una partita come le altre.

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Roberto Gotta