Dove vanno a finire le maglie celebrative delle squadre che non vincono le finali

La letteratura ucronica è un genere di nicchia, fortunatamente. Perché basta già la realtà… vera, di tutti i giorni, a creare sia a livello macroscopico sia a livello personale situazioni al limite del surreale, occasioni mancate o aspirazioni non realizzate. Uno scorcio di mondo che vive in una realtà parallela e sfuggita di mano del resto esiste, del resto: è quello di magliette e capi di abbigliamento celebrativi dei successi di squadre che in realtà quei trofei, quei campionati e quelle partite non le hanno mai vinte. Un mondo parallelo anche letteralmente, perché non è lontano nel tempo ma solo nello spazio, ed è collocato nel Sudest asiatico, in Africa, nell’Europa orientale. Continenti o subcontinenti in cui, poche settimane dopo un Super Bowl di football americano o una World Series di baseball, arriva un carico di magliette, cappellini, giacche con il logo della finalista perdente: generosità del ricco, esagerato primo mondo? Sì e no. Generosità indubbia, ma forzata, perché quel carico è costituito dai capi di abbigliamento inutilizzabili, sportivamente radioattivi, grotteschi. È un aspetto non molto noto di ogni grande evento sportivo, e che presenta parecchi risvolti logistici, e un pochino anche etici. FUORI DAGLI USA La beneficenza, soprattutto negli Stati Uniti, è spesso uno sfoggio indiretto di ricchezza: sono benestante, molto più di te, e te lo dimostro dandoti soldi o aiuti. Ci sono, sì, ovvie pulsioni di umanità e sensibilità, oltre che in molti casi della riconoscenza porta a creare fondazioni nelle località dalle quali si proviene, ma in fondo al pensiero torna sempre quella vecchia barzelletta, roba da vecchi, in cui un ragazzino a cui viene chiesto cosa vorrebbe fare da grande risponde ‘il filantropo’, e alla perplessità dell’interlocutore replica con ‘sì, ma lei ha mai visto un filantropo povero?’. Ecco, appunto. Le serate di gala di questa o quella fondazione hanno come risultato la raccolta di somme enormi dietro il paravento, a volte difficile da digerire, di sfarzo, esibizionismo e autoreferenzialità, tanto che a volte manca solo il ‘mangino brioches’ di translalpina memoria. Ma l’idea di base è quella giusta, e uno dei rivoli con cui giunge a valle, all’obiettivo, è proprio quella della raccolta e della donazione di capi di abbigliamento non più vendibili sul mercato americano e, in molti casi, neppure in quello centroamericano. Non vendibili perché, come detto, ostentano il titolo vinto da una squadra che invece la finale per quel titolo l’ha persa. E proprio il fatto che non siano vendibili apre prospettive e problemi particolari. TAROCCHI VIETATI Per parecchi decenni, vincere una finale voleva dire festeggiare in campo, tornare a casa, organizzare la sfilata e, dopo qualche giorno, mettere in vendita prodotti con il marchio e la celebrazione della vittoria. Da un certo periodo in poi poteva esserci la curiosità esotica di prime pagine di giornale, pre-stampate, da sventolare in campo, e che magari qualche tifoso cercava di arraffare come souvenir, ma niente di più. Capitava però sempre più spesso che, alla parata, quindi 3-4 giorni dopo la finale, spuntassero personaggi che approfittando della calca riuscivano a vendere di nascosto magliette e cappellini contraffatti, stampati in fretta e furia e spesso di bassa qualità, particolare però sul quale gli acquirenti sorvolavano, pur di poter sfoggiare un capo di abbigliamento con il riconoscimento del titolo appena vinto. E allora, poco alla volta, alle leghe venne in mente che quello era un settore trascurato, da esplorare, e fu così che invece del foglio di giornale cominciarono a spuntare in campo, nei festeggiamenti post-partita, magliette e cappellini, pre-stampati con il nome della squadra vincitrice e disponibili per la vendita subito dopo, sia in loco sia online. Certo, non è che l’attuazione di un nuovo piano industriale bloccasse la strada ai contraffattori, e questo vale ovviamente anche per chi vende oggetti PRIMA di un evento: ricordiamo ancora con un sorriso la risata di un intero pullman pieno di giornalisti, in occasione di un Super Bowl giocato a Miami, quando durante una sosta ad un semaforo dal lato destro si materializzò un carrello da supermercato pieno di magliette e oggetti vari, con loghi palesemente contraffatti, accompagnato dal cartello ‘Super Bowl things’, perché il tizio che si era procurato quel materiale non era nemmeno in grado di trovare il termine adatto per descrivere in modo generico quello che stava provando a vendere. Non per nulla, una delle conferenze stampa a cui la Nfl stessa tiene di più, durante la settimana del Super Bowl, è quella in cui vengono annunciate le misure volte a reprimere la diffusione e la vendita di materiale non autorizzato: viene tenuta, con fare tra il sussiegoso e il minaccioso, da vari rappresentanti della lega e delle forze dell’ordine, e ad esempio lo scorso 5 febbraio venne annunciato il sequestro di oltre 200.000 oggetti, per un valore stimato di 39 milioni di dollari, effettuato nei mesi precedenti nel corso dell’Operation Team Player, lanciata nel 2013 dal National Intellectual Property Rights Coordination Center . Trattandosi in moltissimi casi di materiale proveniente dall’estero e importato con metodi illegali, all’operazione partecipa anche l’Fbi e, da quest’anno, anche l’Ice, l’agenzia governativa che sovrintende al controllo dei confini e dell’immigrazione. E nel corso della conferenza stampa vengono ritualmente sottolineate le misure preventive, come l’utilizzo di agenti in borghese e il controllo di siti web di nascita rapida e sospetta. Impossibile qui, per amore di aneddoto, non citare quanto detto dalla massima autorità legale della Louisiana, Liz Murrill, quel 5 febbraio scorso: “excitement is growing ahead of the big game in New Orleans on Sunday. But if you’re looking to be in that number, you’ve got to do your homework first” che necessita non tanto di traduzione quanto di spiegazione, perché quel ‘to be in that number’ è la citazione di una parte della canzone ‘Oh, when the saints, go marching in’, squisitamente legata a New Orleans, un tocco quindi di creatività in una occasione decisamente seriosa. Sarebbe come se, prima di una finale allo Stadio Olimpico di Roma, il Ministro della Giustizia invitasse la cittadinanza a ‘non fare la stupida stasera’. Tornando con i piedi per terra, il primo di tanti passi per poter procedere al cambio di direzione era quello di stampare in anticipo maglie e cappellini con i nomi di entrambe le squadre: e quindi, per fare l’esempio dell’ultimo Super Bowl, sia Kansas City Chiefs Super Bowl LIX Champions’ sia ‘Philadelphia Eagles Super Bowl LIX Champions’. Si tratta di parecchie migliaia di capi di abbigliamento, anche se il numero esatto si basa su proiezioni fondate su diversi parametri, diversi per ogni squadra: la passione delle tifoserie, il bacino di utenza, la distanza dall’ultimo successo, che può influenzare l’attesa. Per il Super Bowl XLI del 2007, tra Indianapolis Colts e Chicago Bears, furono stampate 15.000 magliette che proclamavano i Bears campioni, perché dopo la vittoria in semifinale i tifosi di Chicago, digiuni di titoli NFL dal 1986, avevano spazzato via qualsiasi oggetto con il marchio della finale. Vinserò però i Colts e quindi tutta quella roba, inutilizzata e inutilizzabile, finì a Pittsburgh, sede del magazzino generale della World Vision, un ente benefico che nel 1997 aveva contattato la NFL per proporre un utilizzo etico del materiale, che fino a quel momento era stato smaltito in modo ben diverso: o semplicemente incenerito in una discarica o sminuzzato per essere utilizzato - parliamo ovviamente di magliette e felpe - come imbottitura di poltrone e divani. L’idea della World Vision piacque subito ai vertici di Nfl e Mlb , che in quella maniera potevano dare una bella immagine e fare un’opera di bene. Va da sé che nella distribuzione all’estero doveva esserci un criterio di buon senso minimo, ad esempio magliette in paesi caldi e felpe in paesi freddi, e che devono comunque essere d’accordo le ditte produttrici, perché come ovvio non sono le leghe stesse a fabbricare il materiale. STOCK SECRET Dal 2015 alla World Vision si è sostituita la Good360, raccomandata alla Nfl dalla Nike con cui già lavorava, ma le procedure sono pressoché identiche: nel momento in cui il risultato della finale è certo tutto gli scatoloni con il merchandising della squadra sconfitta vengono sorvegliati a vista e trasferiti nel magazzino della Good360 più vicino per essere poi spediti all’estero non prima di due settimane, a volte anche mesi dopo, facendo attenzione a scongiurare qualsiasi fuga di notizie sulla destinazione. La tempistica prende in esame le necessità del momento e anche il periodo dell’anno: la finale di baseball è a fine ottobre, quella di football a metà febbraio e dunque le esigenze immediata possono essere diverse a seconda delle nazioni. Rispetto a qualche anno fa, quando ad esempio magliette dei Cardinals sconfitti nel 2009 e dei Colts sconfitti nel 2010 furono inviate rispettivamente a El Salvador e Haiti , dalla distribuzione sono stati esclusi Centroamerica e spesso Sudamerica, quasi certamente perché troppe volte era capitato che chi riceveva rivendesse o trovasse il modo di far tornare negli Usa parte del materiale, e questo è l’incubo di enti benefici ma soprattutto squadre e leghe. Nessuna di loro vuole che in territorio americano circolino magliette smentite dalla storia, un po’ per impedire la nascita di un mercato nero basato sulla rarità degli oggetti, un po’ per evitare deprezzamenti e prese in giro per le squadre raffigurate, anche se nel corso della nostra ricerca abbiamo individuato un sito che pubblicizza magliette ‘Super Bowl winners’ di squadre che quello specifico Super Bowl in realtà lo hanno perso: nel 2022, nonostante le precauzioni, su eBay spuntò una maglia dei Cincinnati Bengals campioni Nfl con base d’asta di 10.000 dollari. Il motivo principale della segretezza iniziale e della scelta oculata della destinazione è ovviamente che tutto finisca a persone che ne hanno realmente bisogno, e che contribuisca a migliorare la loro vita. Come sottolineano nei vari contributi web i responsabili di Good360, si fa anche attenzione a che un flusso improvviso di capi di abbigliamento non penalizzi l’economia locale, togliendo dal mercato potenziali acquirenti per esercizi commerciali del paese di destinazione. VIZI E VIRTù Questa beneficenza nasce dagli eccessi del consumismo americano, ovviamente. Una catena di effetti che parte dal desiderio dei tifosi di avere subito a disposizione materiale con il marchio giusto, desiderio favorito dal sorgere del web e dalla disponibilità più immediata di acquisto e spedizione: per le aziende, attendere la conclusione di una finale per stampare maglie e cappellini con la vincitrice giusta vuol dire rischiare di veder cadere la domanda, perché magari qualcuno dei tifosi perde interesse col passare dei giorni, per cui alla fine costa meno produrre in anticipo i prodotti di entrambe le squadre, rischiando di perdere tutto il materiale di quella sconfitta, che subire il contraccolpo economico di una produzione tardiva. Discorso che riguarda praticamente solo magliette, felpe e cappellini, ovvero il merchandising che è più facile produrre in massa in poco tempo, mentre oggetti più particolari, come targhe, palloni, soprammobili, trofei in miniatura, vengono confezionati dopo la finale, avendo oltretutto una funzione simbolica differente, più per la conservazione a lungo termine che per l’esibizione immediata. Altro discorso, già che siamo sul tema, riguarda il merchandising prodotto dopo le semifinali, ovvero le finali di conference della Nfl: le magliette possono essere prodotte con qualche giorno di ritardo, visto che tra la partita e il Super Bowl passano due settimane e c’è dunque tempo, anche se pure lì bisogna valutare la sovrapposizione tra il materiale celebrativo della recente vittoria e quello con il logo del Super Bowl: da parecchi anni ha preso piede la moda di indossare capi del genere in occasione delle tante feste e dunque sono altissime anche le vendite di questi due diverse tipologie di oggetti. Che non possono essere regalati, a Super Bowl disputato, perché non portano scritte smentite dai risultati, e allora vengono venduti con lo sconto del 50% che può anche salire al 70% se, entro il pomeriggio, restano ancora capi invenduti. Venditori e negozianti preferiscono svendere che portarsi a casa cappellini che ormai non interessano più a nessuno. COSCIENZA IN PACE Ascoltando e leggendo le dichiarazioni delle parti in causa, si comprende come la formula benefica permetta di sentirsi la coscienza a posto, anche in un mondo ipercommercializzato come quello del merchandising sportivo. Secondo Anna Isaacson, che dirige il dipartimento di ‘responsabilità sociale’ della Nfl, donare i capi di abbigliamento “ci aiuta a ridurre l’impatto ambientale, specialmente nella città del Super Bowl”, mentre Shari Rudolph di Good360 sottolinea l’effetto positivo “di impatto sociale e dignità umana, fornendo a persone bisognose materiale di alta qualità e tenendolo lontano dalle discariche”. Resta, ovviamente, un aspetto etico potenzialmente sgradevole, legato al fatto che venga inviato solo materiale inutilizzabile, anche se sia Nfl sia Mlb invitano tifosi e sponsor a donare a Good360 qualsiasi tipo di abbigliamento. In più, se nei primi anni Novanta era davvero possibile che un ragazzino africano non sapesse che i ‘Buffalo Bills Super Bowl XXVIII Champions’ in realtà quella partita l’avevano persa, nell’attuale era dei social media è molto più facile che l’informazione corretta arrivi molto prima della maglia, e che il destinatario sappia benissimo di portare addosso qualcosa che, e qui torniamo all’inizio, potrebbe essere uscito da un testo ucronico. Ah, per chiudere: vengono riciclati anche i coriandoli e le striscioline di stagnola con i colori della squadra sconfitta che di solito vengono sparati alla consegna del trofeo. Già di loro sono fatti al 98% di materiale riciclato, e dopo la partita vengono semplicemente rispediti al produttore per essere ulteriormente smaltiti.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Dove vanno a finire le maglie celebrative delle squadre che non vincono le finali

Roberto Gotta