Berrettini al Corriere: "Ho conosciuto il buio, ora l'obiettivo è evitarlo"
AL CORSERAMatteo Berrettini si è raccontato a Walter Veltroni nel corso di una lunga intervista al Corriere della Sera: "Il tennis ti aiuta a conoscerti e ti insegna a perdere. E la sconfitta fa migliorare: come diceva Mandela, non perdo mai ma imparo. Ho vissuto il buio e ho pensato che fosse ingiusto, ma ora sto bene e ho capito che sono felice solo giocando. La paura per me è il motore fondamentale. Sogno ancora Wimbledon, ma l'obiettivo ora è tenere lontano il malessere"
Dai primi approcci con il tennis e gli inizi di carriera all'exploit con la finale di Wimbledon nel 2021. Poi il buio dopo l'infortunio che lo ha frenato e la ripartenza, fino agli obiettivi ancora da raggiungere. È un Matteo Berrettini a cuore aperto quello che si è raccontato a Walter Veltroni nel corso di una lunga intervista per il Corriere della Sera. "Ho iniziato a giocare a tennis a tre anni - ha esordito Berrettini -, quando i miei genitori, che erano e sono tuttora soci di un circolo, hanno depositato tra le mie mani una racchetta con annesse palline di gomma. Non mi piaceva, volevo fare judo, arti marziali. Poi mio fratello mi convinse che il tennis era più divertimento che pura fatica: a otto anni ho ripreso la racchetta e non l'ho più posata. Il rapporto tra fatica e divertimento è cinquanta e cinquanta, ma nella fatica sono sempre riuscito a divertirmi. Mi piace mettermi alla prova e cercare costantemente di superare i miei limiti: sin da bambino, che prendessi la canoa o giocassi a ping pong, volevo e dovevo vincere. E la fatica è sempre stata lo strumento per appagare questo desiderio di andare oltre. A 20 anni, dopo essere stato fermo per sei mesi a causa di un infortunio al ginocchio, sono andato in finale in un torneo Challenger ad Andria e ho iniziato a pensare che con la mia passione, forse, avrei anche potuto mangiare e pagare le bollette".
"Odio perdere, ma uso la sconfitta per migliorarmi"
Berrettini ha poi spiegato cosa significa per lui il tennis e qual è il suo rapporto con la sconfitta: "Da ragazzo amavo gli sport di squadra - ha proseguito -, ma presto mi sono reso conto che mi piaceva prendermi delle responsabilità, essere la ragione del destino di una gara e caricarmi sulle spalle tutto il peso di una vittoria o di una sconfitta. Mi serviva soprattutto a conoscere me stesso. Sul campo da tennis il mio corpo e il mio cervello non hanno più segreti. Ogni gesto è pensato, voluto e sofferto perché da ogni gesto dipende l'esito di ciò che fai. Il tennis ti guarda dentro e io ho capito che per eccellere in questo sport devi innanzitutto conoscerti. Il tennis ti insegna a perdere, anche i migliori devono fare i conti con la sconfitta. Io odio perdere, ma ho sempre usato la sconfitta per migliorarmi: per me è un motore più grande della vittoria. Cercare di non provare la rabbia, la frustrazione o talvolta l'umiliazione che provoca la sconfitta, mi spinge a cercare il modo per rimuovere quei difetti che mi hanno portato a perdere una partita o un torneo. Proprio come diceva Nelson Mandela, 'Io non perdo mai: o vinco o imparo'. Penso alla finale di Wimbledon. Ho fatto un percorso incredibile e ci può stare di perdere con Djokovic, ma sono stato così vicino al titolo che ancora rivedo quel match per capire dove potevo fare meglio. Ho perso quella finale, ma sono stato fiero di aver condiviso con il mio Paese qualcosa di cui gli italiani sono stati orgogliosi. L'unica sconfitta che non sopporto è l'inerzia negativa, la rinuncia a combattere. È qualcosa che non riesco a perdonarmi: io non voglio mollare mai".
"Ho conosciuto il buio, ma così ne sono uscito"
Dopo il boom a Wimbledon, il momento complicato dovuto a una serie di infortuni: "Sto cercando di capire cosa è successo al mio fisico - ha ammesso Berrettini -, è difficile fare un'analisi oggettiva di ciò che accade nel corpo, fatto di muscoli e psiche. Nell'ultimo anno ho vissuto troppi strappi fisici e mentali: il mio corpo e la mia testa in alcuni momenti non erano allineati e chiedevo troppo all'uno o all'altro. Dal punto di vista clinico, ho avuto uno strappo dell'obliquo interno. La mia mente non mi fa accettare quei momenti fisiologici di down che esistono per tutti: quando sono in difficoltà io tendo ad accelerare e questo non sempre è giusto. Anzi, è un errore: quando la testa si illude di stare bene e il corpo sta male, si paga il prezzo che ho pagato. Ho avuto un momento di buio psicologico? Sì, dovuto al fatto di non poter competere. La competizione mi rende vivo, anche quando sono esausto. Non poterlo fare mi ha fatto conoscere il buio e questo sembra non avere fine, sembra ti inghiotta: invece di stare fermo e rifiatare, ti scavi da solo un abisso. Sono stati momenti brutti, ma anche fondamentali per farmi ritrovare la gioia di ciò che ho iniziato da bambino e poi ho sempre fatto nella mia vita. Il buio mi ha dato spazio per ripensare alle origini e ritrovarmi. Ne sono uscito recuperando la purezza, l'allegria e l'incanto di una scelta che da ragazzo ho fatto pensando solo al fatto che era questo ciò che volevo per sentirmi bene. La mia vita era diventata una sequenza di 'devo': dovevo giocare certi tornei, vincere ed essere in un certo modo. So che il dovere esiste, ma è necessario che si coniughi con il piacere e la gioia di fare ciò che hai scelto".
"Ferito dalla mancanza di sensibilità, ma ora sto bene"
"Non mi sono mai sentito solo - ha aggiunto Matteo -, per fortuna sono pieno di persone che mi vogliono bene e che si rapportano a me non per la qualità dei risultati sportivi ma per l'esistenza di un sorriso. In quei giorni però mi sono sentito a disagio: mi sembrava ingiusto che a causa di problemi fisici dovessi affrontare tanta cattiveria e che tutti quelli che prima tifavano per me dovessero giudicarmi e criticarmi. Alla fine sono tato bloccato dal mio corpo e ho tentato di reagire, pagando il prezzo più alto. Mi è mancata questa solidarietà elementare e non trovare questa sensibilità mi ha ferito. I social hanno influito? Estraniarmi perché qualcuno parlava male mi sembrava un atto di debolezza, non volevo cedere o scappare. Ma mi sono reso conto che il mio stato d'animo cambiava in base al tono di cento persone che scrivevano i loro legittimi, ma spesso ingiusti commenti. Il mio umore doveva dipendere da altro. Ora, toccando ferro, dico che sto bene, ma in questo sport tutto il sistema muscolare e la mente sono sottoposti a mutamenti costanti. Oggi mi sento bene dentro e quando scendo in campo ho il sorriso".
"Ho pensato di dire basta, ma senza tennis non sono felice"
C'è stato momento in cui Berrettini ha anche pensato di mollare: "Se dovessi dare un consiglio al me bambino, mi direi di godermi maggiormente i momenti in cui sono stato felice. Ma questo sport e questa vita sociale ti portano a divorare tutto, anche il tempo e le emozioni. Dopo Wimbledon e l'emozione dell'incontro con il Presidente Mattarella, ho subito iniziato a pensare ai prossimi impegni. Così quella gioia mi è sfuggita di mano. La felicità invece deve essere stretta e assaporata. Se ho avuto voglia di dire basta? Tante volte. Nel 2020 ho avuto un'annata complicata e ho fatto il pensiero, che mi aiutava a dormire, di prendere il passaporto e, senza dire nulla, fuggire dove nessuno avrebbe potuto trovarmi. Mi chiedevo perché dovessi subire tutta questa pressione e affrontare il senso di colpa a causa del mio corpo ferito. Poi, con il tempo e il confronto con gli altri, ho capito che io sono felice solo se scendo in campo e respiro quell'atmosfera. Se non lo faccio, sono infelice: è una magnifica condanna che mi sono scelto e che ancora oggi mi regala una gioia immensa. Sto cercando di imparare ad essere felice nonostante la sconfitta: credo che la felicità sia la somma di tante piccole cose. La motivazione e la felicità di un tennista credo sia la voglia di superare sé stessi e conservare l'incanto di quando si era bambini".
"Sonego un vero amico"
In chiusura Berrettini ha parlato del suo approccio alla paura, del rapporto con i colleghi nel circuito e dei prossimi obiettivi: "La paura per me è il motore fondamentale. Se non ho paura, c'è qualcosa che non va. Quando prima di una partita mi sono svegliato sereno, poi ho sempre giocato male. La paura controllata è fondamentale. Un amico nel circuito? Lorenzo Sonego, l'unico con cui abbia un rapporto che supera il campo. I miei prossimi obiettivi? Nel mio cuore, a livello sportivo c'è Wimbledon. Ma anche gli internazionali di Roma. Ma ora che ho conosciuto il malessere, l'obiettivo è quello di tenerlo lontano e di non frequentarlo più. Voglio vivere il tennis per ciò che è: gioia e sfida per migliorare sé stessi".