A Parigi il sabato di tennis è stato tutto tranne che ordinario

Gocce di pioggia macchiano le finestre mentre il vento spoglia quasi completamente gli alberi tirando giù le foglie ancora arancioni: a Parigi è novembre. Un novembre umido, che vive di infissi che ticchettano, di scale scivolose e di cornacchie nere infreddolite che piangono perché cercano cibo. In albergo i turisti guardano la televisione nella hall, in attesa che smetta di diluviare, mentre chi deve lavorare con il proprio computer ne approfitta per bere un cappuccino caldo. Per strada sono soltanto i parigini a camminare di fretta con i propri ombrelli che sono pois di colore tra il cielo bianco e i grattacieli grigi. A La Defense Arena sono partiti in 56 e sono rimasti in quattro. Auger-Aliassime sogna la qualificazione alle ATP Finals senza passare da Metz, Bublik è a una vittoria dal debutto in top ten, Sinner a due dal tornare numero 1 al mondo e Zverev adesso inizia a credere di poter difendere un titolo che sembrava destinato a finire in mani altrui soltanto cinque giorni fa. Storie di un sabato a Nanterre mentre i gestori di ristoranti si affrettano a togliere zucche e scheletri di Halloween per installare, forse prematuramente, le luci di Natale. Smette di piovere proprio un’ora prima che comincino le semifinali di singolare. Questo è il momento perfetto per recensire con la carta di credito – sempre positivamente – i gift shop che vendono asciugamani, portachiavi e taccuini a tema Rolex Paris Masters. La compilation musicale di giornata si apre con “Ordinary” . Però non sarà un sabato come tutti gli altri. Il campo Centrale è sonnecchiante. La musica è bassa e le tribune si sono temporaneamente svuotate dopo la sconfitta di Herbert e Halys in doppio, il che vuol dire che non ci saranno francesi in finale in nessun tabellone. Il campo che a inizio settimana era verde pastello adesso è verde acqua e per ingannare l’attesa chi è rimasto seduto va a tempo di ‘Dance Cam’ sulle note di “Feel it still” . Poi, però, le luci si spengono, tutto diventa prima giallo, poi blu notte e salgono i brividi già soltanto per la prima semifinale, quella in teoria meno gettonata. Bublik entra in campo per primo e non è soddisfatto di come sono stati sistemati gli asciugamani, tanto da chiederne energicamente uno in più prima ancora che cominci la partita. Auger-Aliassime, invece, saluta il pubblico con entrambe le mani e ha anche la tranquillità di mettere a proprio agio il bambino designato per il lancio di monetina. Nel riscaldamento entrambi mandano più di un dritto a rete: il braccio è rigido, ci si gioca una finale in un Masters 1000 e, se si scambia, l’errore arriva presto, quindi meglio non uscire dalla ragnatela di servizi vincenti che funziona per entrambi. Il primo set è di studio sia per chi gioca, sia per chi è in tribuna che si limita a un simpatico “Ce n’est pas fini” tutte le volte che uno tra Auger-Aliassime o Bublik è in svantaggio di un 15, sempre immediatamente recuperato. I game sono rapidi, sincopati ed essenziali e in tribuna vanno già via birra e patatine fritte con ketchup. Né Bublik, né Auger-Aliassime hanno tempo di lamentarsi: tra i due è il kazako a cercare di più il dialogo con il proprio angolo soprattutto per correzioni sulla risposta di dritto. Correzioni che gli servirebbero nel tiebreak ma che non si trovano perché è proprio sullo spostamento laterale in corsa con il dritto che Bublik chiede troppo a se stesso e un Auger-Aliassime nella propria versione più imperscrutabile, quella che a inizio carriera prometteva un futuro da numero 1 al mondo, vince il primo parziale. In tribuna la previsione è unanime: “Felix is going to win in straights”, ovvero in due set. Spoiler alert, andrà proprio così, ma nel frattempo il servizio di Auger-Aliassime inizia a sfarfallare quanto basta per mandare Bublik avanti prima 2-1 e servizio, poi 4-2 e servizio nel secondo set. Tra un break e un altro il kazako ha anche modo di demolire la propria racchetta dopo aver subito il primo controbreak, con il canadese che corre ai ripari e ne pulisce i detriti, ricevendo un grazie che sembra anche sentito. Alla fine, emotivamente parlando, la prima semifinale non è decollata. Però potrebbe decollare – ahinoi – il volo che porterà Auger-Aliassime alle ATP Finals. Il campo Centrale è libero già alle 16.15 e la Federazione Francese ne approfitta per un ultimo e doveroso tributo a Nicolas Mahut, che, dopo gli onori in forma pseudo-privata di Lacoste, lascia definitivamente il tennis tra gli applausi e le lacrime – tante in tribuna – di chi ha tifato per lui tra Roland Garros, Bercy e Nanterre. Il figlio Natanael aveva 8 anni nella clip, diventata virale, in cui aveva consolato il papà dopo la sconfitta al terzo turno dello Slam di casa in singolare contro Leo Mayer nel 2019. Adesso di anni ne ha 14 ed è proprio lui la voce narrante che chiude per sempre una carriera da ricordare con un video che fa consumare un numero infinito di fazzoletti a tutti. Ovviamente, non deve sorprendere che Mahut senior si metta le mani sul volto e senta la voce spezzarsi soltanto al momento di ringraziare il figlio. Tre anni fa Gilles Simon era stato salutato dal pubblico di Parigi Bercy sulle note di “Love Me Again” , mentre tutti applaudivano e si commuovevano e soltanto lui rideva felice. Tre anni dopo, a Nanterre, la musica non serve. Questi francesi sono proprio bravi con gli “Aurevoir”. Zverev entra nell’area di warm-up mentre Sinner sta già sciogliendo le articolazioni. I due si salutano con una pacca sulla spalla di Jannik a Sascha per poi riprendere i propri riscaldamenti senza guardarsi – e fino a qui nulla di strano. Sul campo Centrale manca sempre meno e il crossover con l’NBA è più che gradito nel momento in cui, per ingannare gli ultimi minuti rimasti, viene usata “Sirius”, canzone tematica per i Chicago Bulls dal 1984. Il quadricipite sinistro di Zverev, affaticato dopo la partita vinta contro Medvedev, non è fasciato, ma poi Jannik e Sascha si lanciano un nuovo segno di intesa prima di entrare in campo e, forse, in effetti, se ci si dà così tanto spago prima di una partita importante, qualcosa non va. Da qui in poi questo sarà il racconto di come perdere una semifinale in un Masters 1000 vincendo soltanto un game sia una commovente dimostrazione di rispetto e di dignità verso il tennis e verso chiunque sia innamorato di questo meraviglioso sport che ti toglie il fiato e ti mangia dentro. Zverev rantola con la voce tutte le volte che prova a spingere di dritto o di rovescio, Sinner è silenzioso come un serial killer. Il primo applauso di incoraggiamento per il tedesco arriva dopo cinque punti, ma Jannik risponde al servizio di Sascha con un dritto mai così pulito per impatto, per suono e per tecnica. Sul 2-0, 30-15 Sinner si permette di trovare il vincente direttamente in risposta a una prima e Zverev tira la pallina lontano da sé quasi offeso dalla qualità contro la quale non riesce a competere. Il primo cambio di campo è sul 3-0 con Jannik che ha già due break di vantaggio e il dj che mette “Girls just wanna have fun” . Purtroppo per lui, però, Sascha non si sta divertendo per niente. Sul 3-0, 15-0 tutto quello che era già chiaro a Sinner diventa evidente per tutti. Non è Zverev se al quarto game di una partita – tra l’altro ancora non particolarmente dispendiosa fisicamente – si tiene le ginocchia disperato, incapace di muoversi. Non è Zverev se rinuncia in partenza a correre su un vincente. Non è Zverev se va sotto 5-0 e non mostra particolari segni di stizza. Quale sia il problema fisico inizialmente non è chiaro, ma, dopo 30 minuti, non è già più una partita. Ed è in un momento francamente difficile per chi è in tribuna che avviene qualcosa di raro in Francia. I tifosi, tutti e 16.000, senza eccezioni, capiscono. Capiscono che Zverev non si ritirerà anche se dovrebbe e ne rispettano il coraggio. Nessun altro nel circuito ATP presente avrebbe incarnato lo spirito ultimo di cosa vuol dire giocare a tennis a sette giorni dalle ATP Finals. Sascha non soltanto è entrato in campo non essendo obbligato, ma ne uscirà sulle proprie gambe, anche perché un altro ritiro a Parigi non sarebbe tollerabile per lui. D’altronde, però, che soluzione trovare per evitare l’umiliazione? Il serve and volley non è un’idea, perché Jannik trova sempre lo spiraglio. Il servizio è già sollecitato oltre quanto possa tollerare la schiena – e poi tra l’altro la prima è anche latitante. Il secondo set è un’esercitazione balistica e nel momento in cui sul cambio di campo sul 4-1 la scelta musicale ricade su “I want to break free” , il sarcasmo diventa quasi sadismo. Due game prima Zverev aveva chiamato il medico e aveva preso un antidolorifico, ma per cosa? Tutto diventa chiaro sul 5-1, nel momento in cui il tedesco scuote disperato la caviglia destra, dai legamenti tenuti insieme con il nastro adesivo, quasi pregandola di resistere ancora un altro po’, il tempo di non doverlo costringere di nuovo a uscire dal campo prima di quanto voglia lui. Emotivamente parlando, questa semifinale è stata deludente per chi non ha capito e profondamente dignitosa per chi, invece, ha voglia e sensibilità di andare oltre i numeri. Uscendo dalla Defense Arena alle 18.15 il vento è gelido in faccia e sembra quasi che ci sia aria di neve, ma è troppo presto per novembre. Parigi vive già di luci artificiali e Zverev improvvisamente sembra il barone Von Cramm, la cui storia merita di essere raccontata attingendo a quanto si trova negli archivi del ‘The Times’. Finale di Wimbledon nel 1936: Von Cramm, tedesco anche lui, ma ben più uomo di sport e di vita di Sascha, affronta Fred Perry per vincere il titolo che più di tutti sogna e che mai conquisterà, ma si strappa un muscolo della coscia destra nel primo game e per quanto si sforzi di nasconderlo, lentamente diventa sempre più limitato negli spostamenti in campo. Dopo aver riportato il nudo punteggio, Robert ‘Bob’ Cooper, corrispondente per il quotidiano, ci tiene a specificare che la partita è stata un “deprimente anti-climax” per motivi imprevedibilmente beffardi, ma che, nonostante il rischio di aggravare il proprio infortunio, Von Cramm è rimasto in campo in modo cavalleresco fino alla fine, scusandosi dopo la partita per non aver dato spettacolo. Ci sono partite dalle quali non ci si ritira. Chi vive di tennis sa quali sono. Chi vive di tennis, come Sinner, sa che non rimane che scrivere sulla telecamera “Get well soon” perché non sarebbe giusto non avere la possibilità di affrontare di nuovo Sascha a Torino tra sette giorni. Magari tornando, nel frattempo, di nuovo numero 1. Inteso nel ranking, perché nel fairplay Jannik è già imbattibile. DIARIO DA PARIGI GIORNO 5 DIARIO DA PARIGI GIORNO 4 DIARIO DA PARIGI GIORNO 3 DIARIO DA PARIGI GIORNO 2 DIARIO DA PARIGI GIORNO 1

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Michela Curcio