Dell'Edera: "Così abbiamo reso grande il tennis italiano"

Tre successi di fila in Coppa Davis, due in Billie Jean King Cup, otto giocatori fra i primi 80 al mondo. Non è un miracolo italiano. Dietro al successo del tennis c’è un lavoro di anni. Decenni. “Abbiamo cominciato dal 2000/2001”, spiega Michelangelo Dell’Edera, direttore dell’Istituto Superiore di Formazione Roberto Lombardi, team manager della Nazionale maschile e femminile. Da lui e dalle sue idee è partito il processo di formazione che ha portato fin dove siamo arrivati. “Ma io continuo a considerarmi un maestro di tennis. Formazione è la parola chiave di tutto”. Dell’Edera, formazione è un concetto molto vasto. Ci aiuta a definirlo meglio? “La formazione continua è la nostra missione. Ci tengo che sia sottolineato. Perché non si smette mai di imparare: la didattica è in continua evoluzione, così come il modello di prestazione. E abbiamo deciso di portarla avanti sia per i ragazzini e le ragazzine, sia per gli insegnanti, sia per i dirigenti. A tutti i livelli” Come funziona? “Qualsiasi persona decida di intraprendere il percorso dell’insegnamento - e si considerano tutte le discipline di racchetta - deve obbligatoriamente restare aggiornato. In tutti gli anni pari, l’Istituto scende in periferia, provincia per provincia a riproporre nuove metodologie didattiche riferite all’insegnamento o all’allenamento, coinvolgendo in questo processo tutte le aree formative. L’aspetto importante che contraddistingue la nuova metodologia è quello della multi-disciplinarietà non solo sportiva, ma anche in riferimento alle altre aree della formazione: da quella mentale a quella motoria, da quella tattica a quella tecnica, persino sulla comunicazione e sull’area emergente della sport vision. In qualche modo, cerchiamo di non rompere mai il cordone ombelicale con gli insegnanti che lavorano nei vari club: si tratta di un percorso che ci ha portato ad avere nel tempo meno insegnanti che lanciano le palle e più insegnanti che insegnano. È un modello culturale sportivo tra i migliori e ce l’ha confermato l’ITF: siamo considerati un Golden Institute, uno status conferito solo a una decina di istituti in tutto il mondo” Come avete ottenuto questo riconoscimento? “Creando i presupposti all’interno delle scuole federali con i nostri vivai. Sono passati da un numero di 1200 a 2870, con 15mila insegnanti coinvolti. Abbiamo portato avanti il concetto di decentramento, un’altra parola chiave del nostro sistema. In questo modo si crea un ambiente virtuoso che porta tutti a formarsi: gli insegnanti, i bambini, ma anche le famiglie” In che modo sostenete il processo? “Con delle borse di studio che vengono distribuite ai bimbi e alle bimbe più talentuose, oltre a una serie di consulenze tecniche per ogni area formativa. Diventa un processo che da casa si trasferisce ovunque e si vede anche nelle partite dei nostri professionisti: non c’è più il trainer tuttologo che da solo segue l’atleta, ma uno staff preparato che cura nel dettaglio il suo aspetto di competenza. Lavorando su un concetto di squadra sin dall’inizio, si ottengono ottimi risultati. Negli anni dispari, invece, l’Istituto organizza un simposio internazionale, che permette a persone di altissimo livello di relazionarsi con il nostro mondo e aiutarci a crescere. Tra questi cito anche Julio Velasco: la sua presenza ci ha portato a un confronto sistematico con discipline sportive diverse. Qualche mese fa gli feci una promessa: la sua federazione aveva vinto con il volley le due competizioni più importanti. Volevamo fare lo stesso. Ci siamo riusciti” Parlava di decentramento. Come lo avete organizzato? “L’Istituto ha cominciato con la formazione nel 2010 e da sùbito aveva capito che fosse importante creare una sorta di internazionalizzazione: era necessario costruire una ragnatela tecnica, organizzativa, metodologica e didattica sull’intero territorio nazionale, che permettesse però di guardare oltre confine. Dopo tre anni ci siamo resi conto di tre problematiche che andavano risolte nel tempo. La prima: eravamo troppo legati alla nostra terra battuta ed è nato il progetto ‘Campi veloci’ con una nuova metodologia dedicata. La seconda: serviva più continuità di allenamento, ed è nato il progetto ‘Campi coperti’. La terza: dovevamo rendere più internazionali i nostri ragazzi e le nostre ragazze. Così abbiamo cominciato a proporre contributi economici che permettessero ai club di sostenere e organizzare tornei internazionali in cambio delle wild card da distribuire ai nostri giovani. Ora abbiamo un calendario di 52 settimane in cui si gioca praticamente sempre: abbiamo creato uno stimolo a disputare tornei di valore internazionale che permettono ai giocatori di confrontarsi con atleti di tutto il mondo” I dati raccontano di un impegno di circa 10 milioni di euro e di challenger sempre più in aumento. E le borse di studio? “Vanno dai 500 ai 50mila euro. Vengono distribuite in base a una serie di valutazioni tecniche o sportive legate ai giocatori. C’è un progetto che parte nelle scuole e si chiama ‘Racchetta in classe’: ogni circolo che ha una scuola federale riconosciuta può adottare un istituto scolastico, la federazione contribuisce affinché gli insegnanti facciano lezioni curriculari ed extracurriculari gratuitamente ai bimbi e alle bimbe, comprese le persone diversamente abili. È un processo di inclusione a cui teniamo molto” Il tennis è diventato uno sport veramente popolare? “Confermo. Negli anni ‘70, ‘80 o ‘90 probabilmente era più elitario. Ora è cambiato e lo dimostrano le borse di studio di cui si parlava prima, con due indirizzi diversi. Il primo è legato alla tecnica. Per farla semplice: serve migliorare il servizio? Il bimbo o la bimba che ne hanno bisogno e a cui viene riconosciuto un merito sportivo, hanno la possibilità di sostenere allenamenti individuali mirati a quello. Il secondo è legato all’aspetto competitivo e ci porta a finanziare i progetti che permettano un confronto a livello nazionale e internazionale. Giocare a tennis ora costa 50/60 euro al mese per due volte a settimana. Forniamo noi le racchette e gran parte dei materiali. È una rivoluzione culturale, oltre che sportiva” Possiamo dire che questa rivoluzione ha il volto di Sinner? “Sì, ma non solo. Jannik lo conosco da quando aveva 12 anni e in effetti è il simbolo di quanto stiamo dicendo, perché è stato convocato in Nazionale Under 14 senza aver mai vinto nulla. Una volta non era così. Ora non si guarda più a quanto si vince, ma a come si gioca: questi progetti hanno messo ragazzi e ragazze nelle condizioni di esprimersi. Hanno creato i presupposti per fare in modo che prima di diventare campioni in senso assoluto, possano diventare campioni di loro stessi. Mandela diceva che l’istruzione e la formazione sarebbero stati gli aspetti decisivi a cambiare il mondo. È un principio universale, perfetto. Lo stiamo dimostrando”

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Valentino Della Casa