Lauda va in Paradiso con tre titoli Mondiali. Tre, come le vite che ha vissuto sulla terra. La prima da pupillo di Enzo Ferrari. La seconda dopo il 1976, quando risorge dal rogo del Nurburgring. La terza nel 1984, quando fa tris iridato con la McLaren
GP MONACO, LA CRONACA DELLA GARA
NIKI LAUDA E' MORTO, AVEVA 70 ANNI
È persino troppo facile pensare e scrivere che Niki Lauda sta già sgommando trionfalmente in Paradiso. Era un mito e lo sapeva. Quando Hollywood gli dedicò un film (“Rush”, di Ron Howard) fu un modo di ammettere che quella vita, la sua, sembrava figlia di una sceneggiatura geniale. Invece, è stato tutto vero. Lauda, l’uomo che visse tre volte.
Da giovane rampante, pupillo di Enzo Ferrari, ricco e spregiudicato, baciato dalla sorte. Iridato di F1 nel 1975. Stop.
Seconda vita. Rogo del Nurburgring, 1976. Arturo Merzario, collega non amato, salva l’austriaco dalle fiamme (40 anni dopo, Niki presenterà Arturo ai figli dicendo: "Se siete qui, lo dovete a quest’uomo"). Niki è sfigurato, lo danno per morto, invece risorge. Dopo 40 giorni gira in pista a Fiorano. Lo incontro, non ci credo, pare uscito dall’inferno, perde sangue dalle ferite. Ma corre, a Monza arriva quarto, poi scopre la paura. In Giappone diluvia, lui si ritira. Forghieri, il dt delle Rosse, ai box gli fa: "Dirò che si è rotta la macchina, per salvare la tua immagine, te lo devo". Ma Niki replica: "No, tu dire verità, io umano, io paura morire". Grande, grande, grande. Anche nel riprendersi il titolo andato a James Hunt per un punto, anche nel rompere con Ferrari che non aveva creduto abbastanza nel miracolo.
Va alla Brabham di Ecclestone. Si annoia presto. Ha in mente la terza vita. Nei cieli. Fonda una compagnia aerea. Ha bisogno di quattrini. Allora rimette il casco. Nel 1984 con la McLaren fa tris iridato. Grande. Grande. Grande. Gli cambiano un rene. Cambia moglie. Fa il consulente Ferrari per l’amico fraterno Montezemolo, suo ds nella prima vita a Maranello. Guida la Jaguar. Diventa presidente del team Mercedes. È il mentore di Lewis Hamilton sulla Freccia d’Argento. E sempre con quella faccia segnata dalle fiamme, "Io no plastica, io così". Coraggioso nei gesti e nelle parole. Mai banale. Unico. Fino a un colpo di tosse che non era solo tosse, un trapianto di polmone, la lenta agonia. L’addio.
Una volta, nel 1995, eravamo in Germania per il GP. Disse che voleva concedermi un’intervista. Ma non sulla F1. "Ti pare possibile occuparsi di corse mentre in Ruanda si sta scatenando un genocidio?". Lauda era così. Grande, grande, grande.