Niki Lauda, il ricordo di Carlo Vanzini: "Era un eroe solitario del volante"

Formula 1

Carlo Vanzini

Ci sono mille aneddoti da raccontare su Lauda, pilota meticoloso, mai banale, orso buono e solitario del paddock. Più che il suo incidente al Nurburgring nel 1976, dobbiamo ricordare il rifiuto di Niki a correre in Giappone per la conquista del titolo contro James Hunt. Lì si intuisce la grandezza di un uomo consapevole di rinunciare a un Mondiale per restare coerente con le proprie idee

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Per chi come me è stato bambino negli anni 70, appassionato già fin da piccolo del mondo dei motori, non potevi non avere, non possedere il modellino della macchina di Niki Lauda. Sia perché era stupenda, sia perché Lauda era riuscito a riportare in alto quello che per tutti gli italiani è da sempre un mito: il Cavallino. Di quell'epoca del Lauda pilota posso ricordarmi quello che vedevo da tifoso e come veniva raccontato: un pilota attento, meticoloso, preciso. Già allora mi ero fatto l'immagine di un eroe del volante, non solo cavaliere, ma anche meccanico e ingegnere. Ed è per questo che veniva chiamato calcolatore. Oggi da qualche parte leggo che il suo soprannome era il computer: in quell'epoca di computer ce n’erano veramente pochi, ma lui sicuramente in pista e nella vita lo era.

Ricordo da bambino quando mio papà, parlando in casa, disse: “È morto Niki Lauda”, perché le informazioni che arrivavano allora erano ovviamente frammentarie. Non c'erano i social e quindi mio papà, che aveva sentito dell'incidente e aveva visto le immagini, pensava come tanti (o forse come tutti) che effettivamente Niki Lauda non ce l'avesse fatta. Ma poi ecco l'eroe che risorge, perché per noi bambini quei piloti erano tutti degli eroi. Sapere che non era morto e sentire poi che tornava a gareggiare… Nella testa di un bambino un cavaliere può essere solo immortale. Idea che poi mi si è frantumata 6 anni dopo, quando sempre mio papà mi diede la notizia della scomparsa di Gilles Villeneuve.

Ho avuto modo di conoscere Lauda nel momento in cui ho iniziato a lavorare in Formula 1. Ho vissuto i suoi anni da opinionista della televisione, da responsabile del progetto Jaguar e infine da presidente onorario della Mercedes. La cosa certa è che anche in una giornata scialba e noiosa, se volevi avere un titolo, bastava andare da Lauda. Perché anche in giornate scialbe e noiose lui non era mai banale nelle sue risposte e in qualche modo ti regalava tanto da dire, come se fosse consapevole (lo era assolutamente) che tutti siamo lì per far parte di uno show, di uno spettacolo, di uno sport, e tutti abbiamo bisogno che se ne parli il più possibile.

Ricordo uno degli anniversari dell'incidente del Nurburgring. Ci trovavamo proprio al Nurburgring, quando gli chiesi un ricordo di quel momento. Lui rispose: “Quando la macchina è bruciata mi hanno portato in ospedale, tutto è finito lì. Non c'è più niente da ricordare”. Come dire che quello è stato un episodio, un passaggio della sua vita, che non richiede commemorazioni. E allora lì ho pensato che forse da dover ricordare non è tanto il suo incidente e il suo clamoroso rientro in soli 42 giorni a Monza, ma quanto fece alla fine di quella stagione, quando decise di ritirarsi dal Gran Premio del Giappone valido per la conquista del titolo. Lì ho capito la grandezza dell'uomo consapevole di rinunciare a un Mondiale per essere coerente con le sue idee e le sue scelte. Rifiutò che Ferrari facesse un comunicato giustificando il ritiro per problemi elettrici. Lì stava la grandezza dell'uomo. Perché quello che doveva fare, ossia tornare dall'infortunio dell'incidente per dimostrare di essere più forte di James Hunt, l'aveva fatto.

Ricordo anche un episodio con la televisione tedesca sul luogo dell'incidente, quando tenendo in mano un biscotto simulò il ritrovamento dell'orecchio perso nell'incendio, per l'incredulità e il divertimento dei nostri colleghi tedeschi. Ci sono mille aneddoti da raccontare su Niki Lauda. Ricordo un'intervista per la radio nel periodo dell’elettronica sulle monoposto. E lui disse: “Anche le scimmie possono guidare questa macchina”. Raccontai la sua risposta a un noto collega della televisione, che capendo la portata della dichiarazione di Lauda andò da lui per cercare di farsi ripetere la stessa frase. Alla fine Lauda disse: “Stai provando a farmi dire che anche le scimmie guidano queste macchine, ma adesso non lo dico più”, ridendo. Non si può non ricordare Lauda con un sorriso. Io l'ho sempre visto un po’ come un orso buono, solitario nel paddock, o al massimo accompagnato da Toto Wolff, dall'amico Helmut Marko o da pochi altri. Ma era anche capace di graffiare, senza ferire, con le sue dichiarazioni. Come ad esempio quella sulla Ferrari: “In Italia sanno fare solo gli spaghetti”. Per chi non conosceva Lauda quella era ovviamente un'offesa. Ma per chi lo conosceva sapeva benissimo che quello era semplicemente Lauda.