Sono passati quattro anni dalla morte del pilota italiano sull'asfalto di Sepang, lo stesso dove aveva vinto il Mondiale 250. Oggi nessuno ha dimenticato quel ragazzo che sembrava volare in sella alla sua moto
Di Francesco Berlucchi
Quattro anni passano veloci, che quasi non te ne accorgi. Sembra ieri. Il tempo ha rimarginato la ferita, ma non l’ha cancellata. È sempre lì, solo un po’ più nascosta, ma non meno penetrante. Ancora non ti spieghi come sia potuto succedere. Proprio a lui, così vitale; proprio lì, su uno dei circuiti più moderni al mondo. Lo guardi, posi gli occhi ancora una volta sulla curva 11. E poi scopri che ti ricordi ogni singolo istante di quel giorno maledetto.
Marco Simoncelli se n’è andato nel modo più incredibile e crudele, sulla pista dove tre anni prima era diventato campione del mondo nel Mondiale 250. Su quell’asfalto dove sembrava volare, seduto sulla sua Gilera, con le braccia aperte come ali. Era la gioia incontenibile di quel ragazzino solo 21enne, con quei capelli ingombranti e quello sguardo tenero, che aveva appena iniziato a scrivere il suo nome fra le leggende del motociclismo.
E pensare che quella stagione era iniziata nel peggiore dei modi, per lui, con la doppia caduta a Losail e a Jerez. Ma al Mugello era cambiato tutto, con la prima vittoria davanti ai suoi tifosi. Quei tifosi che non hanno potuto fare a meno di amarlo, di rispettarlo per quello che era, e di difenderlo sempre. Come quando fu attaccato da mezza griglia di partenza della MotoGp, per la sua guida aggressiva e generosa.
Era il suo marchio indelebile, in pista. Ed era anche l’antitesi dell’altro Marco, fuori dai cordoli. Che lo rendeva autentico, unico. Perché nel suo stile forse non c’erano le linee perfette di Lorenzo, la partenza fulminea di Pedrosa, la geniale imprevedibilità di Stoner o le staccate impossibili di Rossi. Ma c’erano tanto coraggio e il valore aggiunto di un uomo vero.