L'ascolano subisce una manovraccia da Manzi e reagisce affiancandolo sul dritto e tirandogli la leva del freno. Il dramma è solo sfiorato, ma due giornate di squalifica potrebbero non aiutarlo a ricordare che la velocità è una cosa tremendamente seria
Guardiamoci intorno; solo un piccolo sguardo al destino dell'uomo. C'è gente che sta bene e c'è gente malata. Gente che cammina e gente che non può più farlo. Il circuito di Misano, per stare nello specifico, è intitolato a Marco Simoncelli e ha testimoniato la scomparsa di Shoya Tomizawa; due ragazzi che con la moto, in gara, hanno perso la vita. Morti. Si capisce abbastanza bene, no?
In questo paese dei balocchi che è il motomondiale, dove tutto sembra sempre una festa e dove un litigio tra Rossi e Marquez fa notizia per anni, l'essenza pericolosa del motociclismo è solo nascosta. Come uno strumento di autodifesa, ma tutti sanno che il rischio c'è. Ed è importante saperlo. E' ciò che mette i professionisti in condizione di non superare i limiti della cattiveria, della rabbia e della dissennatezza. Il gesto di Romano Fenati, che tira la leva del freno a Stefano Manzi in rettilineo, va purtroppo inquadrato in questo contesto. E' proprio il peggio. Vuol dire bloccare l'avantreno e far volare l'altro in avanti, faccia a terra a duecento all'ora. E' andata bene, ma nessuna azione subìta in precedenza può giustificare una reazione così. Fenati non è un cattivo ragazzo o una brutta persona. Per niente. Ha invece storicamente un problema di gestione dei nervi, un suo senso della giustizia che la fa diventare sommaria. Non è la prima volta, ma è la più eclatante. Siccome il suo gesto di Misano è volontario, orrendo e ha zero precedenti, due gare di squalifica ci sembrano francamente poche. Non per infierire su Fenati, anzi, per aiutarlo. Per aiutare lui e chi gli sta accanto in pista, lui e chi gli sta accanto nella vita e lo deve accompagnare a diventare grande, sportivo e responsabile.