MotoGP, Gp d'Italia 2021: le riflessioni di Paolo Beltramo dopo la morte di Dupasquier

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Paolo Beltramo

Paolo Beltramo

Il weekend del Gran Premio d'Italia al Mugello è stato segnato dalla morte di Jason Dupasquier, dopo l'incidente nelle qualifiche di Moto3 avvenuto sabato. Invece delle consuete pagelle, Paolo Beltramo riflette sula passione dei piloti, sulla sicurezza in pista e sulle sofferenza che ogni scomparsa prematura lascia dentro ognuno di noi

Questa volta no. Dopo una tragedia come quella che ci ha portato via Jason Dupasquier a soli 19 anni non è proprio il caso di star qui a scrivere le pagelle dei vari piloti e delle varie moto. Almeno questo è il mio pensiero. Mi interessa molto di più il continuo confronto con il destino che le corse di moto posseggono insito nella propria anima, nel proprio essere corse, velocità, curve, adrenalina, rischio, casualità, sfortuna.

 

Innanzitutto va detto che un destino bastardo può colpire chiunque, qualsiasi sia il suo mestiere, la sua passione. Se decidi o comunque vai naturalmente verso quel tipo di attività già a quattro, cinque anni, se insisti e ti appassioni sempre di più fino a diventare un pilota già da bambino, fino a voler tentare di diventare come quelli dei poster che hai nella tua cameretta, se lo fai soprattutto per divertimento, ma poco alla volta ti interessa sempre più il risultato, se cerchi sempre il modo, il particolare per migliorare, per essere più veloce, bè lì non c’è nulla da fare, il tuo destino è segnato: cercherai in tutti i modi di diventare un pilota, la passione che ti ha contagiato è inestinguibile.

 

Pochi, rispetto alla base, riescono ad arrivare al mondiale, al livello di Jason Dupasquier che della famiglia dei “piloti” faceva parte. Perderlo in quel modo, investito da un collega dopo una caduta, è quindi terribile per tutti. Dagli appassionati, agli addetti ai lavori, ai piloti. Ognuno di loro viene un po’ scheggiato, rotto, martellato nell’anima da questi incidenti che coinvolgono un ragazzino che è esattamente come erano loro a quell’età, a quel punto della propria carriera.

 

I morti nel motomondiale ho letto siano 47 contandoli dal 1949, l’anno della prima edizione. Molti sono concentrati fino agli anni ’80: ai tempi si correva su tracciati stradali (TT, Imatra, Jugoslavia, Montjuic, Spa, Nurburgring, Brno…) o molto pericolosi con reti di contenimento all’esterno delle curve tenute da pali piantati in terra, circondati da balle di paglia, guard-rail e via discorrendo. Allora le tute erano leggerissime, i caschi ancora a “scodella”. Semplicemente “non si poteva cadere altrimenti morivi” come racconta Giacomo Agostini.

 

Dapprima lentamente, poi con più determinazione la ricerca di una maggiore sicurezza ha fatto molta strada. Agostini boicottò il TT dell’isola di Man, nel 1974 al Nurburgring i piloti migliori si rifiutarono di correre se gli organizzatori non avessero “protetto” le 173 curve di guard-rail con balle di paglia, cosa che non fecero, anzi diedero vita ad una farsa con piloti locali; nel 1979 a Spa Roberts, Sheene, Cecotto, Ferrari, Lucchinelli, Uncini diedero vita allo sciopero e quasi ad un campionato alternativo (si sarebbe chiamato “World Series” e aveva come anima l’avvocato britannico Barry Coleman). Nel 1982 i big scioperarono a Nogaro (vinse Frutschi con la Sanvenero), poi, più tardi anche a Misano nel 1989 dove i migliori si astennero dal partire e vinse Pierfrancesco Chili la sua unica gara in 500.

 

 

Nel frattempo un altro personaggio contribuisce con la sua ammirevole follia al miglioramento delle gare. Si tratta del dottor Claudio Costa di Imola che per primo organizzò postazioni mediche con anestesista attrezzato in ogni curva facendo sì che lo stesso venisse fatto in tutto il mondo. Poi arrivò la Clinica Mobile, molti tracciati vennero modificati, eliminati, dimenticati. Ma il rischio, la tragedia non furono mai estirpati completamente da uno sport dove i passi avanti sono stati incredibili, ma dove la sicurezza assoluta non potrà mai esistere.

 

Una volta i piloti venivano chiamati “cavalieri del rischio”, partivano sapendo ed accettando di non essere sicuri di arrivare al traguardo vivi. Eppure correvano ugualmente, così come volavano i primi aviatori, guidavano tra strapiombi, alberi e case i piloti d’auto, si lanciavano i primi paracadutisti, si immergevano i primi sommozzatori, si facevano lanciare i primi astronauti… è la storia dell’umanità, fatta di amori e passioni a volte crudeli, pericolosi, apparentemente insensati. Eppure i piloti professionisti lo fanno nei luoghi più adatti, con le attrezzature migliori e i soccorsi più rapidi ed efficaci senza correre i rischi che corrono molti “piloti da strada” ovunque ci sia dell’asfalto.

 

Per un pilota morire in gara deve essere un po’ come morire d’amore. Il brutto della felicità, la bastardaggine del destino. Ma soprattutto soffriamo noi che restiamo, che pensiamo al suo sorriso, alle sue speranze, ai suoi sogni, alla sua felicità stroncati in un attimo. Sappiamo che non è giusto, pensiamo a come devono stare i suoi amici, la sua famiglia che come quasi sempre accade ha aiutato il pilota-bambino a diventare pilota vero con sacrifici e passione.

 

Pensiamo anche e questo è ciò che fa più incazzare, che oramai praticamente in pista si può morire soltanto così: quando una moto ti prende, ti investe. Tutte le altre dinamiche sono praticamente rarissime, se non proprio impossibili. Insomma il prossimo passo importante, determinante anche se di certo non risolutivo in assoluto, sarà trovare il modo di proteggere il collo. Ci arriveremo, ma ancora ci sarà qualcuno che morirà per amore. Della moto, delle gare, della velocità, della sfida, delle sensazioni che soltanto quello lì ti sa dare.

 

Io ho vissuto un periodo, la fine degli anni ’70 e poi gli ’80 dove ho perso molti piloti più o meno amici, ma comunque vicini visto che allora mettevi la tenda di fianco al motor-home di Sheene o Roberts. Se ne sono andati in moto, in pista, tra gli altri, Chevallier, Paci, Ghiselli, Rougerie, Pazzaglia, Patrick Pons, Frutschi, Middelbourg, Palazzese, Wakai, Kato, Tomizawa fino a Simoncelli, Salom e Dupasquier.

 

E poi Romboni in una giornata di generosità per ricordare il Sic e proprio davanti agli occhi miei e di Guido Meda a Latina con il motard. Insomma il motociclismo non è sport da perdonare tutti e sempre. Ma soffrendo, piangendo, cercando di capire utilizzando come chiave la stessa passione che mi ha sempre accompagnato, che mi ha fatto anche fare delle cazzate su strada, ho imparato, so una cosa: sono quasi tutti scomparsi di colpo, senza soffrire mentre erano in un’estasi, una “zona magica” che soltanto chi ha corso può vivere. E quindi erano felici.

 

Un appunto per concludere. Secondo me è stato sbagliato far fare ai piloti della MotoGP il minuto di silenzio in memoria ed onore a Dupasquier a 15 minuti dal via della loro gara. Avrebbero dovuto farlo appena conclusa la Moto2, magari posticipando di una ventina di minuti la corsa così da dare modo a tutti di rientrare nella propria “zona d’ombra” per ritrovare tutta la concentrazione e riuscire ad escludere per quel tempo necessario, tutto il resto come fanno sempre. Beh, ci sentiamo dopo Barcellona che si corre il 6 giugno. Praticamente adesso.