Ghiotto a Sky Sport: "La Indycar è la categoria più tosta, spero di tornare già a Detroit"

indycar

Matteo Pittaccio

FOTO da: Penske Entertainment - Joe Skibinski
indycar_Penske_Entertainment_-_Joe_Skibinski_luca_ghiotto

Alla vigilia della 500 Miglia di Indianapolis, live su Sky Sport domenica 26 maggio dalle 18:30, Luca Ghiotto ci racconta com’è andato l’esordio in IndyCar, parlando anche del paddock e delle differenze rispetto alle corse europee

ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP DI SKY SPORT

Abbiamo avuto il piacere di parlare con il 29enne vicentino della sua prima esperienza in IndyCar, categoria in cui ha debuttato a Barber per poi correre anche il GP di Indianapolis. Una chiamata last minute da parte di Dale Coyne, che ha così lanciato Luca Ghiotto nell’affascinante e ostico universo delle corse a stelle e strisce.

Luca, hai riportato l’Italia in Indy a 8 anni dall’ultima esperienza di Luca Filippi. Raccontaci com’è nata questa occasione?

“Tutto è nato dalla visita a Nashville nel 2022, ripetuta anche nel 2023. L’aver spinto da casa a livello di comunicazione ed esser andato a Nashville per parlare con più di Team Manager ha fatto sì che il mio nome si sia fatto sentire. Di conseguenza, appena si è liberato un sedile sulla #51 di Dale Coyne immagino che io sia stato uno dei primi a cui il team abbia pensato. Dal mio lato è stata una sorpresa siccome ho ricevuto la conferma a pochi giorni da Barber, quindi è stato tutto molto veloce e difficile da realizzare, almeno inizialmente. Però è stato bellissimo, sicuramente una faticaccia, ma ne è valsa la pena. Le prime chiamate sono arrivate mentre ero a Barcellona per la European Le Mans Series. Tuttavia, dopo i contatti iniziali sembrava difficile perché gli standard della IndyCar richiederebbero almeno un test, impossibile da svolgere prima del GP dell’Alabama. Devo ringraziare Max Papis, è stato lui a spingere per dare il via libera. Per me è stato un vero onore, insieme a Zanardi Max è uno dei più grandi rappresentati italiani negli States ed il suo benestare mi ha fatto capire che ci sia una stima reciproca. Se alla fine ho avuto il nulla osta per gareggiare è proprio grazie a lui. Il tema del test obbligatorio è legato alla sicurezza, ma se l’organizzatore (in questo caso la IndyCar, ndr) capisce che si tratti di un pilota storicamente corretto e con risultati già alle spalle non si fa problemi a dare l’ok. Lo stesso è successo a Théo Pourchaire (chiamato a sostituire David Malukas in Arrow McLaren, ndr).

Pochi giorni per fare i bagagli e partire quindi. Hai avuto modo di allenarti e di provare al simulatore?

“Non ho avuto molto tempo per preparare il debutto. La preoccupazione principale verteva sul lato fisico poiché la IndyCar è globalmente riconosciuta come la categoria più tosta: le auto sono relativamente pesanti per essere delle monoposto e, per giunta, non hanno il servosterzo. Per di più, rispetto alla F2 le gare sono molto più lunghe e la prima pista da affrontare sarebbe stata Barber, ritenuto il tracciato più fisico di tutti. L’obiettivo principale è stato sin da subito finire i 90 giri, pertanto il poco tempo disponibile l’ho sfruttato solo ed esclusivamente nella preparazione fisica. In cinque giorni non si possono fare miracoli, ma ho cercato di ottimizzare il tempo. Non ho toccato il simulatore dato che una volta arrivato in America sono passato per una miriade di controlli medici.”

Che differenze hai trovato tra F2 e IndyCar?

“F2 e IndyCar sono simili, ma devo dire che mi ha stupito lo spazio a disposizione nell’abitacolo. Sono abbastanza alto e in F2 ho sempre fatto fatica a trovare una posizione di guida che mi permettesse di sentirmi discretamente comodo. Quando ho visto la Indy ho ritrovato un abitacolo immenso e per la prima volta in 6-7 anni ho avuto la libertà di fare un sedile come volevo io. Se in Indy si fosse presentata la stessa problematica della F2, allora credo che i 90 giri non li avrei fatti: avere una macchina così spaziosa agevola la tenuta fisica. Lato guida, invece, non cambia molto. Come ho detto è un po’ più pesante, ma ha anche più carico aerodinamico, tant’è che nelle curve veloci di Barber è molto divertente da guidare. Logicamente, il peso in più si sente nelle curve lente, mentre un aspetto che mi è particolarmente piaciuto è l’erogazione del motore, molto più docile, sembra quasi un aspirato per come distribuisce la coppia. Sono stato sorpreso anche dalle gomme. Non essendoci le termocoperte mi sarei aspettato uno pneumatico difficile da scaldare, invece è incredibile come si accendano in un attimo e permettano di spingere dal primo all’ultimo giro. Così facendo la gara diventa una qualifica e questa è una dinamica a cui non ero più abituato.” 

Hai provato anche l’aeroscreen. Che ne pensi?

“Arrivando da una LMP2 devo ammettere che l’aeroscreen ricordi molto un abitacolo chiuso. Sembra più un prototipo endurance che una vettura Formula, anche come insonorizzazione dal vento. Ho fatto solo due gare ma devo dire che secondo me l’aeroscreen è migliore dell’Halo. L’unica pecca è che il vetro si sporca, esattamente come un’auto GT, dovendo togliere la pellicola a strappo nelle soste ai box. Ma dal mio punto di vista lo preferisco al classico Halo.”

Ma passiamo alle gare, come sono andate?

“Sono ovviamente deluso, il mio obiettivo è lottare sempre per i primi posti. La IndyCar però mi ha fatto capire che, nonostante sia una categoria quasi monomarca, ci siano delle gerarchie tra le squadre. Questo aspetto mi ha portato a usare per lo più come riferimento il mio compagno di squadra (Jack Harvey, ndr). Averlo dall’altro lato del box è stato un bel benchmark. Parlando di Barber (GP chiuso al 21° posto, ndr) il team ha cercato di aiutarmi quanto più possibile, facendomi usare due treni di morbide nelle prime prove piuttosto che uno solo. Essermi qualificato davanti a Harvey mi ha dato una grande soddisfazione, mentre in gara è stato complicato il passaggio dalle morbide alle dure, che impiegano molto più tempo a scaldarsi. Il fuori pista all’ultima curva, infatti, è arrivato giusto qualche giro dopo il cambio gomme. Alla fin fine lo scopo di Barber era preparare al meglio il GP di Indy. Nel mezzo c’è stata la 4 Ore di Le Castellet della ELMS, una trasferta che non ha aiutato (ritiro mentre era primo, ndr). Ammetto che Indianapolis me la sarei aspettata più semplice di Barber. Piloti come Armstrong e Lundgaard mi avevano detto che Indy sarebbe stata molto più facile, ma a dirla tutta non l’ho percepita allo stesso modo. È stata molto tosta anche per le braccia. Il ritmo in qualifica è stato discreto, nel secondo giro ero due decimi più veloce e se l’avessi concluso sarei partito 16° o 17° invece che 21°. Passando alla gara, il passo è stato buono, ma curva 10 mi ha tratto in inganno. È una lunga piega a destra nella quale il cordolo esterno inizia molto tardi. Nelle prove molti piloti hanno avuto problemi in questo punto, io invece in gara (completata in 25^ piazza, ndr). Dispiace perché dalla nostra prospettiva sembrava possibile chiudere la corsa al 15° posto, un risultato che avrebbe aiutato la squadra in un momento così difficile. In sintesi, felice del passo sì, ma mi dispiace per il risultato.” 

Le corse americane offrono un ambiente davvero unico. Come ti ha accolto il paddock della IndyCar?

“Nel paddock sono tutti molto tranquilli, anche i vari Dixon e Power che corrono nella serie da decenni. Conosco Palou da anni, abbiamo corso insieme in F3, ed è stato uno dei primi a dirmi di provare la strada delle gare americane quando ci siamo ritrovati a Daytona per la 24 ore di due anni fa. Lui è stato il primo a venirmi a salutare nel paddock. Anche Scott Dixon, conosciuto a Bathurst nel 2020, è passato subito a salutarmi, augurandomi buona fortuna. Mi ha fatto piacere che anche le leggende della IndyCar non si distacchino troppo, ma credo che in America tutto questo sia normale seguendo un concetto di motorsport più aperto. Inoltre, è bello vedere quanta gente giri nel paddock con gli appassionati che possono entrare anche nel garage senza troppi problemi. Mi è stato detto che in occasione della Indy500 sia quasi impossibile camminare nel paddock, quindi questa libertà potrebbe risultare controproducente per le squadre. Ma alla fin fine ho capito quanto siano importanti gli appassionati per il motorsport americano.”

Che personaggio è Dale Coyne? Rimane distaccato o si inserisce nelle logiche della squadra?

“Dale Coyne è il classico prototipo del team owner Americano. Quando vedo lui, Roger Penske, Chip Ganassi e via dicendo mi sembra che siano tutti fatti con lo stampino (sorride, ndr). Dale parla quando serve, è sempre presente nei briefing ed attivamente coinvolto nelle scelte della squadra. Ricordo che a Indy ci ha dato una mano nelle strategie.”

Spostiamoci per un attimo sull’endurance. Il tuo team, Inter Europol Competition, ha una seconda auto tra le riserve della 24 Ore di Le Mans. Tu saresti incluso nella line up?

“Correre in LMP2 senza partecipare alla 24 Ore di Le Mans non è il massimo. Da quando la categoria è stata rimossa dal FIA WEC si è passati da 25 a 16 macchine, dunque è molto più difficile trovare posto. Siamo secondi tra le riserve è vero, ma nel caso in cui si liberassero due posti andare a Le Mans diventerebbe un obiettivo primario.” 

Infine, quante chance ci sono di rivederti in IndyCar Series?

“Ad ora c’è un 50% di possibilità che continui in IndyCar. Dopo Indianapolis la squadra era molto contenta del lavoro svolto e mi ha chiesto di tornare. Cambiare spesso pilota non è mai bello per il team (Coyne non ha un pilota fisso ad oggi, ndr) e, anche se la gara è andata com’è andata, credo che sia riuscito a dimostrare qualcosa di buono, facendo capire che con una maggior preparazione si potrebbe fare anche meglio. Io ho voglia di tornare, salterei sicuramente due gare per delle concomitanze con l’ELMS e probabilmente non farei gli ovali, ma a giugno sono libero. Spero di tornare in pista già a Detroit!”.