Please select your default edition
Your default site has been set

NBA, mio fratello è figlio unico: la storia di Brook e Robin Lopez

NBA

Dario Costa

Come i gemelli Lopez, tra diverbi fraterni e l’ossessione per i fumetti, hanno finito per incarnare il sogno recondito di ogni nerd innamorato della NBA.

“Si potessero fondere le singole caratteristiche dei due in un unico giocatore, staremmo osservando la seconda scelta assoluta”. La congettura, condivisa da buona parte degli scout NBA, risuona come un mantra tra i corridoi del Maple Pavillon. È la tarda primavera del 2008 e la stagione del college basketball appena conclusa gode di una sola, rocciosa certezza: a metà giugno Derrick Rose sarà il primo nome chiamato da David Stern al Draft della NBA. Dietro alla stella di Memphis, giocatore con le stigmate del predestinato, si affollano una serie di talenti dal potenziale enigmatico, guazzabuglio che genererà uno dei Draft più contraddittori degli ultimi anni. 

A stuzzicare le fantasie degli addetti ai lavori accorsi in California, nondimeno, sono i ragazzi che indossano le maglie numero 11 e numero 42 dei Cardinals. Il cognome, su quelle maglie, è identico perché Brook e Robin sono fratelli, per la precisione gemelli. A Stanford, evidentemente, hanno una predilezione per l’accoppiata dai cromosomi comuni, visto che dieci anni prima Jason e Jarron Collins, anche loro gemelli, avevano vestito gli stessi colori. E in effetti il ragionamento con cui molti degli osservatori chiosano sul futuro dei due appare da subito fondato: se fosse possibile abbinare la pulizia d’esecuzione e la facilità nel fare canestro di Brook con la ferocia agonistica e l’applicazione difensiva di Robin, il risultato sarebbe il prototipo di un centro che sposta in entrambe le metà campo. Ciò che le necessità del gioco vorrebbe abbinare, tuttavia, è stato assegnato dalla genetica verso due direzioni diverse — più o meno quelle che le carriere dei gemelli, scelti rispettivamente alle posizioni 10 e 15, prenderanno negli anni a venire. 

A unirli saranno non solo le cifre più che significative raccolte sul campo, quanto il materiale offerto fuori dal rettangolo di gioco. Perché se è con la palla in mano che Brook e Robin si sono conquistati la rispettabilità nel complicato mondo della NBA, è la loro stravaganza nella quotidianità ad averli trasformati in veri e propri eroi di culto. In particolare per la moltitudine di nerd che, accompagnando l’amore per il basket a stelle con strisce passioni simili a quelle dei gemelli, intravede nei Lopez la quintessenza del proprio ideale di vita.

Il paradiso del nerd

Gli elementi sono quelli classici, ripetuti centinaia di volte in altrettante storie di atleti cresciuti tra mille difficoltà: una famiglia numerosa; un padre fuggitivo; ristrettezze economiche; una madre che cerca di non far mancare niente ai propri figli; nonni che provano a compensare l’assenza della figura paterna. In questo caso, a ogni buon conto, occorre sostituire componenti noti come pistole, scontri a fuoco, gang di strada e voluminose fedine penali con fumetti, libri fantasy e giochi in scatola. 

Già, perché la comunità famigliare creata da Deborah Ledford dopo l’abbandono del marito è di quelle che regalano speranza. Con Heriberto Lopez, esule cubano e mediocre giocatore di baseball, Deborah ha avuto quattro figli e quando lui decide di scomparire i due più giovani, gemelli, sono ancora in fasce. Lei, ex-nuotatrice di livello (nel 1968 aveva partecipato ai Trials per entrare nella squadra olimpica e rappresentare i colori americani alle Olimpiadi di Città del Messico) e poi insegnante di matematica in tre diversi licei del distretto locale, non cede alla disperazione. I soldi sono quelli che sono e bastano a stento per mantenere quei ragazzi che si irrobustiscono a vista d’occhio, con buona pace del frigorifero di casa. Per sua fortuna, i genitori la aiutano non solo dal punto di vista economico, ma anche nel plasmare quello che sarà un formidabile percorso formativo per i quattro Lopez. 

Ai nonni Ledford, infatti, è possibile far risalire non solo le origini del corredo genetico dei gemelli — Bob giocava a basket nelle mitologiche industrial leagues degli anni ’40 e Indy era stata ginnasta di livello — quanto la passione per la lettura, il disegno e le storie in generale. Entrambi insegnanti in pensione, i coniugi Ledford ospitano spesso i nipoti nella loro casa alla periferia di Fresno. Per loro hanno approntato una stanza che di fatto è una vera propria biblioteca con migliaia di titoli, dove si spazia dai grandi classici della letteratura per ragazzi come Alice nel paese delle meraviglie e Il Mago di Oz fino alla collezione completa degli albi editi dalla Disney. Ci sono anche giochi in scatola, pupazzetti, marionette, fogli e matite per disegnare. 

Nei lunghi pomeriggi che i Lopez trascorrono dai nonni c’è una sola, vistosa assenza: il televisore. Non è un grosso problema per i ragazzi, che quando non sono impegnati a leggere, scrivere o disegnare si sfidano nel campetto improvvisato sul viale d’accesso al garage. I due canestri appesi alle estremità del viale funzionano alla grande e le coppie sono spesso formate da Alex e Brook da una parte e Chris e Robin dall’altra. Alex, che ha dieci anni più dei gemelli e a quattordici sfiora già i due metri, è il vero motore dello slancio verso il basket. Quando il maggiore dei fratelli se ne va per frequentare la University of Washington l’effetto emulazione scatta inesorabile. I gemelli cominciano a prendere sul serio l’impegno con la palla a spicchi e iniziano un percorso che li vedrà fianco a fianco prima alla locale San Joaquin High School e quindi a Stanford. Durante il lungo cammino che dalla scuola del quartiere li porterà alla notorietà nazionale e non solo, nonostante tutto, entrambi manterranno ben salda la passione maturata in quella stanza a casa dei nonni.

Stanford, Disneyland e ritorno

Quando è il momento di scegliere il college in cui portate i propri talenti, a casa Lopez non ci sono molti dubbi. I gemelli sono cresciuti tra i racconti entusiasti della madre, laureatasi in matematica nella Stanford d’inizio anni ‘70, e la propensione è più che definita. L’unico, vago tentennamento risiede nel cuore di Robin: il motivo è molto semplice ed è direttamente collegato ai pomeriggi spesi a divorare fumetti. Alla University of Oregon, infatti, il programma del dipartimento basket è così così, ma facendo sponda sul nickname della squadra (Ducks), alle partite la banda dell’ateneo è solita suonare la sigla di Ducktales. 

La tentazione c’è, ma paperi o non paperi alla fine si va a Stanford, anche se l’incanto per l’universo Disney rimarrà un chiodo fisso. Nel biennio trascorso al campus, i Lopez diventano presto la coppia di lunghi titolare e regalano alla squadra, storicamente poco rilevante nella prestigiosa Pac 12, discreti risultati. Le gesta per cui i due vengono tutt’ora ricordati, però, avvengono fuori dal campo. Quando Trent Johnson, allora capo allenatore dei Cardinals, ricorda le conversazioni riguardanti i gemelli, il tratto comune è rappresentato dalla premessa con cui iniziavano “non crederai a quanto sto per dirti, ma…”. La lista delle imprese compiute dal dinamico duo Brook&Robin è lunga e va dalla pretesa di potersi guardare una puntata dei Simpsons nella mezz’ora prima delle gare (intervallo di tempo in cui vige il divieto d’introdurre nello spogliatoio qualsiasi apparecchio elettronico), fino alla fuga non autorizzata a Disneyland, durante la quale si rendono irreperibili per circa ventiquattro ore — genialata che costerà loro una settimana di sospensione. 

Ma il ricordo che più diverte compagni di corso e staff tecnico della squadra, ancora oggi a distanza di anni, è un altro. Ovvero quello di due energumeni, già allora abbondantemente sopra i due metri, che, non disponendo ancora di patente e automobile, si sobbarcano il viaggio andata e ritorno da Mountain View in bicicletta, spesso di primo mattino, solo per raggiungere il loro negozio di fumetti preferito. Era già chiaro allora, insomma, che ai gemelli Lopez sarebbe risultato impossibile viaggiare lungo la linea tratteggiata dell’ordinarietà. Anche al piano di sopra, leggasi NBA, l’avrebbero capito presto.

L’attacco vende i biglietti, la difesa odia le mascotte

Le carriere dei gemelli Lopez assomigliano a un espediente retorico costruito a tavolino per avvalorare l’assunto sempre in voga tra gli addetti ai lavori della NBA: se sai segnare con facilità, un posto nella lega per te ci sarà sempre. Nonostante la relativa distanza nella scelta al Draft, infatti, i percorsi intrapresi dai gemelli sono stati alquanto difformi. 

Immune al vorticoso mulinare della porta girevole piazzata sulla soglia dello spogliatoio, Brook è diventato uomo simbolo dei Nets, vero e proprio trait d’union anche durante il trasloco dalle paludi del New Jersey alla Brooklyn gentrificata. Nelle nove stagioni trascorse con la maglia della squadra che l’aveva scelto alla 10 (dopo essere stato in odore di top-5, riscuotendo in particolare l’interesse di Oklahoma City che però alla fine gli preferì Russell Westbrook), Brook è diventato un All-Star e soprattutto il miglior marcatore nella storia della franchigia, finendo nelle prime tre posizioni per quasi tutte le altre categorie statistiche. 

Arrivato a East Rutherford in coincidenza con il principio della ricostruzione post-Jason Kidd, l’ex-Stanford è rimasto un pilastro sia delle versioni che hanno flirtato pesantemente col tanking, sia dell’illusorio momento di gloria generato dall’arrivo di Deron Williams prima che di Paul Pierce e Kevin Garnett poi. Anche il duo Marks-Atkinson, insediatosi nell’estate 2016 con l’arduo compito di ricostruire sulle macerie ereditate dalla gestione precedente, ha subito messo Lopez al centro del progetto. Lui, a testimonianza dell’eccellente professionalità e di un talento naturale nel mettere la palla dentro al cesto, si è reinventato come tiratore da dietro la linea dei tre punti con 5,2 tentativi a partita e il 34% di realizzazione (per intenderci: erano 0,2 a partita con il 14% l’anno prima e zero assoluto nelle sue prime cinque stagioni in NBA). La dura legge del rebuilding, tuttavia, si è infine abbattuta su di lui, trasformando il suo contratto — oneroso ma in scadenza nel giugno prossimo — in un asset appetibile come D’Angelo Russell. Il ritorno nella natia California non è risultato fin qui felice e la sua avventura in maglia Lakers appare destinata a concludersi in fretta, visto che i sogni di gloria dei gialloviola si basano sullo spazio salariale liberato dai suoi 22 milioni in scadenza.

Se il primo cambio di squadra in nove anni è risultato infelice, Brook potrebbe senz’altro chiedere consigli al gemello Robin, che dal 2008 di traslochi ne ha fatti parecchi. Scelto dai Phoenix Suns che preparavano il dopo-D’Antoni, Robin ha avuto l’inestimabile privilegio di vivere il suo anno da rookie condividendo lo spogliatoio con Shaquille O’Neal e Steve Nash (quella stagione trascorsa al servizio, letteralmente, dei due veterani meriterebbe un articolo a parte per la quantità di aneddoti raccontati). Le successive avventure tra New Orleans, Portland, New York e Chicago l’hanno sempre visto sudarsi il rispetto di compagni e tifosi grazie all’aggressività e all’energia profusa sul campo. Le statistiche personali, nel caso di Robin, dicono molto meno della nomea di lottatore che si è creato nel corso delle esperienze elaborate in contesti peraltro molto diversi uno dall’altro.

Anche dal punto di vista economico, i cammini paralleli dei gemelli sembrerebbero confermare l’assunto di cui sopra. Il totale dei guadagni delle nove stagioni da professionisti dice infatti che l’ex-Nets, con i suoi 100 milioni di dollari complessivi, ha portato a casa all’incirca il doppio rispetto al fratello. E se da una parte Brook è sempre stato, fin da adolescente, più portato alla socializzazione e ha quindi goduto di maggiore popolarità, dall’altra Robin ha definito la sua immagine trascinando la furia agonistica anche fuori dal parquet — fino ad elevarla vera e propria cifra stilistica.

La faida con le mascotte che animano le arene NBA, ad esempio, è ormai diventata una vera saga, il cui inizio viene fatto risalire al dicembre 2013. A Detroit “Hooper”, l’equino in peluche che veste la canotta dei Pistons e già reduce da un incidente diplomatico con Brook e i Nets pochi giorni prima, decideva di rincarare la dose con il gemello Robin, allora in visita con i suoi Blazers. L’alterco con Hooper apriva la strada a una lunga lista di scontri sviluppatisi durante le trasferte delle squadre in cui Robin ha militato, raggiungendo picchi elevatissimi e rendendo Lopez il beniamino di chiunque apprezzi il giusto la presenza delle mascotte a bordo campo. 

Fratelli coltelli

Come inevitabile, i binari paralleli delle singole carriere hanno finito per incrociarsi diverse volte. Da quel primo New Jersey Nets-Phoenix Suns in cui segnarono due punti ciascuno, il conteggio degli scontri gemellari risulta in perfetta parità: 9 vittorie a testa. Nondimeno, ogni sfida è stata caratterizzata da quella sana, implacabile pulsione competitiva che solo i legami di sangue sanno generare. In una perpetua riproposizione dei tanti uno contro uno giocati da ragazzi, i Lopez non si sono mai tirati indietro di fronte alla possibilità di abusare — cestisticamente parlando — l’uno dell'altro.

In questa occasione, probabilmente la più famosa, esegue Brook su Robin.

E se sul campo, durante i confronti faccia a faccia, hanno mantenuto l’abitudine di rivolgersi a stento la parola, i battibecchi a distanza non sono mai mancati. Brook e Robin non si sono infatti risparmiati frecciate sature di spietato sarcasmo, anche questo patrimonio quasi esclusivo dei rapporti fraterni. 

Alla vigilia della sfida più recente, andata in scena allo United Center lo scorso 26 gennaio, la provocazione è partita da Brook che ha definito il gemello, fin lì in testa alla specifica classifica con sei falli tecnici sanzionati in meno di quaranta gare giocate, un “dilettante”. All’accusa di non saper reggere alla pressione competitiva, Robin ha risposto incassando il colpo ma ribadendo come invece il difetto di Brook sarebbe “la mancanza di IQ cestistico, anzi di IQ in generale”. Qualche mese addietro, dopo aver segnato il canestro della vittoria sui Pistons, sollecitato in merito alla rissa che poco prima aveva visto protagonista il fratello e Serge Ibaka ai margini di un acceso Bulls-Raptors, Brook aveva sentenziato “anche stasera i gemelli Lopez hanno messo in campo ciò per cui sono noti: Robin ha fatto il suo sporco lavoro mentre io ho giocato a basket”. Messo al corrente di come fosse stato proprio il gemello a sferrare il primo pugno, l’allora centro dei Nets rincarava la dose sostenendo di non essere per niente sorpreso, perché “lui l’ha sempre fatto, non riesce proprio ad evitarlo”. Infine, in chiusura di conferenza stampa, arrivava la vera stilettata: “Magari avremo un vero e proprio match tra i due, prima o poi, chi lo sa? In caso io punterei su Ibaka, senza dubbi”.

Ma il vero picco del rapporto allo stesso tempo simbiotico e conflittuale tra i due, nonché forse l'esempio da cui traspare l'essenza dei gemelli e del loro legame, risale al momento dell'ingaggio di Robin da parte dei New York Knicks nel 2015. Riuniti nella stessa città dopo sette anni vissuti sulle opposte sponde del paese, l’idea era quella di tornare a vivere insieme. La mamma non faceva mistero di gradire la prospettiva di una nuova convivenza e i media newyorkesi, a caccia di storie extra-sportive che compensassero la pochezza della rivalità agonistica tra Nets e Knicks, ci andarono a nozze. In luogo di piccanti rivelazioni sulla vita sentimentale o litigi furiosi a tutela della privacy personale, il siparietto messo in piedi da Brook e Robin rivelava comunque il loro status di inguaribili nerd. 

Si partiva, al solito, con la provocazione di Brook, residente in zona da tempo e a parole disponibile ad ospitare il fratello, magari nel sottoscala di casa “come Harry Potter”. La risposta di Robin, valigie in mano e pronto al trasferimento da Portland, non si faceva attendere. Trincerandosi dietro a non meglio specificate “incompatibilità”, il nuovo centro dei Knicks affermava di essere alla ricerca di una sistemazione tutta per sé. Il botta e risposta proseguiva quindi per buona parte dell’estate, fino a quando ad emergere era il vero ostacolo che impediva il realizzarsi della convivenza. Questione di donne? Di soldi? Di gelosie derivanti da vecchi screzi? Niente di tutto questo, perché siamo nel magico mondo dei gemelli Lopez e la materia del contendere è ben altra: i gatti. Poupin, il felino di Brook, viene accusato da Robin di essere un doppio-giochista che approfitta delle distrazioni altrui per infierire sugli altri animali domestici, in particolare sul suo adorato Prince Edward Zephyr. I precedenti, temporanei, di convivenza avevano generato accese faide feline, per cui di fatto i gemelli si trovano costretti a rinunciare al progetto di tornare a dormire sotto lo stesso tetto.

Se tutto questo vi sembra troppo strambo persino per un posto come New York che vive d’eccentricità e per una lega come l’NBA abituata all’estro spesso fuori controllo dei propri protagonisti, allora Brook e Robin non fanno per voi. Per tutti gli altri, e per gli amanti degli amici a quattro zampe in particolare, giova sottolineare come i due felini paiono aver superato abbondantemente il trauma dell’esposizione mediatica, almeno a giudicare dai profili Instagram a loro dedicati .

Quanto ai Lopez, ormai entrambi lontani da Gotham City, il futuro non sembra riservare una seconda chance di vivere e tantomeno giocare insieme. Ad ogni modo, visto che siamo appunto nel magico mondo dei gemelli Lopez, questo non significa che la collaborazione non possa continuare sul altri fronti.

Lopez Comics

Proposti alla recente deadline del mercato NBA alla voce “saldi”, i gemelli hanno finito per rimanere nelle rispettive squadre. Laddove il contratto di Brook, in scadenza tra pochi mesi, lo renderà free agent durante l’estate o magari anche prima in caso di buyout da parte dei Lakers, a Robin toccherà capire quale potrebbe essere per lui lo scenario all’interno dei Bulls in piena ricostruzione. Nulla vieta quindi di immaginarli entrambi alla ricerca di una nuova collocazione ma, per le ragioni dettagliate in precedenza, l’ipotesi di vedere i Lopez con la stessa maglia appare al momento remota. 

Quello che il campo non permetterebbe, però, potrebbe essere surrogato dalla fantasia dei gemelli, nel vero senso della parola. Da fonti vicine ai Lopez è infatti trapelata l’intenzione concreta di produrre il loro primo fumetto, scritto e disegnato a quattro mani, Brook ai testi e Robin alla matita. Il proposito, probabilmente nato già decenni addietro in quella stanza a casa dei nonni, pare abbia preso corpo durante le tante comparsate in costume ai raduni di cosplayer e appassionati di fumetto.

La loro carriera è ancora lungi dall’epilogo, insomma, ma i Lopez stanno già progettando il loro futuro. Un futuro che, proprio come il passato e presente dei gemelli, assomiglia all’antitesi della banalità. Comunque vada, quei due, qualunque cosa decidano di combinare, continueranno a punzecchiarsi e a prendersi poco sul serio. C’è da scommetterci, e da divertirsi.