Il n°1 del giocatore due volte campione NBA con gli Heat è diventata la quarta maglia di sempre ritirata dalla franchigia di Miami, dopo quelle di Alonzo Mourning, Tim Hardaway e Shaquille O'Neal: "Mi siete stati sempre vicini"
MIAMI – Quattro. Un numero nel destino. Non a caso, per quelli che credono nella numerologia, è quello che rappresenta la concretezza. Scelto col numero 4 nel generoso Draft del 2003 (LeBron, Wade, etc.) adesso Chris Bosh diventa anche il quarto giocatore nella storia degli Heat a vedersi ritirare la maglia dopo Alonzo Mourning, Tim Hardaway e Shaquille O’Neal. Tecnicamente sarebbe il quinto considerando anche lo stendardo che la franchigia, per rispetto, ha appeso nella parte alta della tribuna centrale dell’American Airlines Arena col numero 23 di Michael Jordan, ma è un fatto che nessuno ha mai apprezzato a South Beach (“Grazie per averci umiliato per tanti anni?”) tanto che pochi se lo ricordano. La maglia n°23 è posizionata - vicina a una che ricorda lo storico quarterback dei Dolphins Dan Marino col suo n°13 – lontana dalle altre tre degli Heat diventate ora quattro, e certo non fa parte della storia di Miami. Una storia che nella notte si è arricchita di un nuovo capitolo, di un nuovo eroe. Le luci che si sono abbassate all’intervallo del match contro Orlando e via allo show, tanto che perfino l’obiettivo playoff – forse anche per gli stessi protagonisti – è passato in second’ordine almeno per un quarto d’ora. Applaudire, commuoversi per un vecchio amico è stato bello e più importante. A onorarlo sono venuti in tanti ma non c’era Shaq: vecchie ruggini, forse, visto che nel marzo 2009 Bosh, allora con i Raptors, si lamentò dell’atteggiamento non proprio esemplare di un O’Neal a fine carriera (con la maglia dei Phoenix Suns). “Superman” rispose piccato nelle interviste, chiamando l’avversario col nomignolo “RuPaul” [la più famosa drag queen americana, ndr]. I due si sono in seguito pizzicati anche via Twitter qualche volta ma ora sono accumunati dall’essere titolari di due delle quattro maglie ritirate all’American Airlines Arena. Bosh ha sempre avuto personalità e interessi diversi dal tipico giocatore NBA e questo non sempre lo ha fatto apprezzare totalmente da questo mondo. Arrivare a Miami – dopo anni di sconfitte a Toronto – non lo ha solo reso vincente, ma ne ha cambiato un po' la percezione generale. La sua attenzione per moda, arte e per la cultura generale sono diventanti valori apprezzati che ne hanno arricchito l’immagine anche se l’aspetto principale del suo contributo è stato quello portato in campo. “Le attenzioni che i ‘Big Three’ avevano creato hanno aumentato la mia concentrazione sul campo e in palestra, perché in un mondo in cui la luce dei riflettori aumenta – e così lo scrutinio pubblico – l’unico modo di difendersi è produrre sul parquet. Gli Heat per me sono stati una splendida scelta sotto tutti gli aspetti, non solo per gli anelli vinti, anche se sapevo che venendo qui non sarei mai più stato il giocatore franchigia che ero stato a Toronto. Tutti sognano – al playground o nel canestro sopra il garage – di segnare il canestro vincente per la propria squadra, tutti sognano di essere il franchise player e io coi Raptors ho provato questa sensazione. Poi però, dopo qualche stagione, ti accorgi che è dura non vincere, esattamente la sensazione che sta provando adesso Anthony Davis. La dinamica di questo business è cambiata e per me la soluzione migliore è stata Miami. I ricordi belli sono tantissimi, ma forse tra i migliori restano i viaggi in bus verso le partite. Essere insieme ai miei compagni, aiutare il morale di un rookie in un brutto momento o concentrarsi in vista di una grande partita. Ecco… le grandi partite: quando mi chiedono delle statistiche della carriera, dei numeri, delle vittorie, io rispondo orgoglioso facendo notare il mio rendimento nelle partite più importanti, quelle che contano. Credo di essere stato sottovalutato nel corso della mia carriera perché ho iniziato il mio percorso NBA oltre confine, ma sono certo di aver costretto poi tanta gente a rivedere i propri giudizi e a parlare bene di me, perché la realtà era ben diversa dalla loro percezione”.
Le lacrime della sconfitta, il rimbalzo della vittoria
Uno splendido video – in questo gli Heat sono da sempre bravissimi – e poi il rituale che per quanto ripetitivo è sempre bello e toccante. “Io non sono un tipo particolarmente emotivo – ha confessato Bosh, che aveva promesso di non volersi commuovere ma non è stato capace di trattenere qualche lacrima – ma questo è chiaramente un momento speciale che offre spazio per riflettere su tante cose, rivivere tanti bei momenti ed essere orgoglioso di tutto quello che mi ha portato fino a questa serata. Se c'è qualcosa che non mi manca? Le sedute di allenamento di coach Spoelstra e le sue sedute di peso settimanali per il controllo della massa grassa”, ha scherzato Bosh. Una maglia che sale verso il cielo e in cambio concede un’immortalità nella storia della franchigia che per un giocatore è un riconoscimento che forse vale quasi quanto un anello. Per qualcuno anche di più. Come tutto quello che accade nella Miami del basket la regia di questa nottata porta la firma di Pat RIley che ha preceduto l’evento con parole che sanno d’incoronazione. “Sono orgoglioso che Chris abbia la sua maglia ritirata e che venga onorato all’interno dell’American Airlines Arena riconoscendo la sua grandezza come giocatore in campo e l’incredibile contributo alla comunità di Miami fuori dal parquet. Il suo nome e la sua maglia resteranno lassù per sempre”. Bosh in sei anni trascorsi nel sud della Florida ha mandato a libri 18 punti media a partita per un totale di 6.914 (quinto di tutti i tempi nella storia della franchigia), cui ha aggiunto 2.816 rimbalzi e 680 assist. Ha vinto due anelli di campione, disputato quattro Finali ed è stato il terzo lato di un triangolo che ha fatto sognare città e tifosi per almeno un lustro. Due sue immagini restano nella memoria di tutti. Le lacrime nel corridoio dopo aver perso la finale NBA contro Dallas e poi – quella più bella e più felice – il rimbalzo che è valso l’anello contro San Antonio. Tutti ricordano giustamente il tiro di Ray Allen sulla sirena di gara-6 delle finali 2013, infatti, ma quel tiro incredibile non ci sarebbe mai stato senza il rimbalzo e l’assist di Bosh. Lì l’ex superstar dei Raptors è diventato, anche nel cuore dei tifosi degli Heat, quel numero 1 che ha sempre portato sulla maglia nel sud della Florida. Prima era sempre stato solo il miglior complemento possibile a Dwyane Wade e LeBron James, come Horace Grant nei grandi Chicago Bulls di Michael Jordan e Scottie Pippen o come il Derek Fisher dei Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal. Adesso – anche per via dello sfortunato epilogo della sua carriera, accelerato da cause mediche – gli Heat ritirano la sua maglia per prima e come sempre quando c’è un premio e/o un’elezione arriva a ruota anche l’interrogativo sulla legittimità della scelta. Nel caso di Bosh i pareri sono divisi, per una decisione effettivamente borderline.
Il suo posto nella storia degli Heat
C’è la gratitudine per i due titoli, ovviamente, ma forse l’amarezza di averlo visto finire la carriera in maglia Heat in maniera prematura ha emotivamente aiutato la decisione di tributargli questo onore. L’ex giocatore di Georgia Tech ha sì caratterizzato un momento di grande esaltazione nella Miami sportiva di cui è stato attore protagonista – anche se non superstar – ma probabilmente per rispetto alla storia della franchigia questo grande riconoscimento sarebbe dovuto venire dopo qualche analogo riconoscimento ad alcuni campioni del passato. Bosh ha fatto parte di un capitolo particolare della storia degli Heat, certamente il più vincente. È chiaro che tra gli “aventi diritto” il suo nome verrebbe dopo quello di Wade, quello del totem Udonis Haslem e forse dello stesso LeBron (nonostante l’amarezza per i tempi e le modalità del suo addio) che stanno però ancora giocando e ovviamente avranno questo onore in seguito, ma un pensierino a quel Glen Rice che ha praticamente numeri simili ai suoi (6 stagioni, 19.3 punti di media, 1.067 assist e 2.363 rimbalzi) e che è stato determinante in un modo diverso sia Pat Riley che il proprietario Mickey Arison avrebbero dovuto farlo. Rice è stato prima fondamentale a dare un’identità alla franchigia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e poi a regalare i primi playoff e le prime sensazioni agonisticamente positive alla Miami cestistica. Non ha vinto un titolo a Biscayne Boulevard, ma ha aperto il processo per cui gli Heat hanno iniziato a cambiare dimensione fino a diventare vincenti. L’ex Michigan è stato il primo grande giocatore della storia della franchigia in un’era in cui si pensava che Miami potesse essere solo una città di football. Una rilettura più attenta dei numeri e del passato – senza farsi troppo prendere dall’emotività delle stagioni più recenti – avrebbe dovuto far pensare al n°41 prima forse del n°1, ma tempistiche e classifiche sentimentali da tifosi a parte, Bosh ha comunque scritto pagine indelebili della storia dei Miami Heat e questo onore se lo merita tutto, anche alla luce di un comportamento sempre impeccabile dentro e fuori del parquet. Mai un problema fuori dal parquet e la definizione di “modello in campo e fuori” che profuma molto di cliché ma che nel suo caso è invece azzeccatissima. In carriera, comprendendo pure l’esperienza in Canada, il lungo texano è stato 11 volte All-Star, ha vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi ed è stato uno dei primi “4” (ancora il solito numero) a interpretare in maniera dinamica e un po' meno statica (o solo fisica) il ruolo di lungo NBA. È stato – e sa di esserlo – uno degli artefici del cambiamento del gioco. Oggi vive ancora a Miami e dopo un periodo di freddezza con la proprietà – “colpevole” di aver preso la decisione (giusta) del ritiro anche per lui – qualche mese fa ha sancito la pace con un pranzo in compagnia di Riley: da allora ogni tanto si è rivisto anche in tribuna a far il tifo per i suoi ex compagni. Ora qualcuno ipotizza perfino che possa diventare azionista di minoranza della franchigia assieme ai compagni di sempre, LeBron e Wade, dopo che la cerimonia per il ritiro della maglia è stata anche l’opportunità per l’annuncio ufficiale del suo addio ai parquet. In realtà per quei maledetti coaguli di sangue - nel polmone prima, nei polpacci poi – Bosh non gioca più dall’inizio della stagione 2016-17 ("Ma ho letto ogni lettera che gli Heat mi hanno fatto avere, spedite da tutti i tifosi"). In questo periodo non si è mai arreso e ha sempre sperato di poter tornare in attività, sentendo vari pareri medici e riprendendosi perfino ad allenarsi, tanto che all’inizio dello scorso settembre cominciava a spargersi la voce che avrebbe provato un clamoroso ritorno con i Knicks a New York. Invece non se n’è fatto niente. “Sono felice di poter sfogliare gli altri capitoli della mia vita, adesso che ho metabolizzato l’amarezza dei tempi e della dinamica del mio stop agonistico. Oggi poi sarebbe troppo facile giocare: non bisogna neanche difendere, basta tirare da tre”. Una stoccatina pronunciata con un lieve e impercettibile velo di rimpianto, come una nuvoletta di zucchero sul pandoro, dolce come dolci sono i ricordi. Quelli che Bosh, da oggi, può godersi appieno: le vittorie, una legacy importante e una maglia col suo nome e il suo numero 1 all’interno dell’American Airlines Arena.