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9/30: Marcus Smart, cuore e anima dei Boston Celtics che puntano al titolo NBA

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©Getty

Il n°36 dei Celtics è diventato uno dei giocatori imprescindibili nella rotazione di Brad Stevens, il secondo più utilizzato, un tiratore affidabile e soprattutto il centro nevralgico della difesa e degli umori di Boston - una squadra che studia da contender anche grazie alla crescita di Smart

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La buona notizia è arrivata da poco e ha regalato un sorriso a tutto il mondo NBA in questa fase complicata: Marcus Smart è guarito dal coronavirus, dopo settimane di isolamento è risultato negativo al tampone e può finalmente tornare almeno in parte in contatto con i suoi cari. “Un esempio anche durante la malattia”, ha raccontato coach Brad Stevens nei giorni scorsi, dopo avergli affidato mai come quest’anno la leadership emotiva della squadra. Smart è diventato un riferimento tecnico imprescindibile, il secondo giocatore più utilizzato dai Celtics dopo Jayson Tatum (oltre 1.700 minuti sul parquet). Con lui in quintetto +6.7 di Net Rating - un dato in linea con quanto fatto registrare dai compagni più presenti assieme a lui in campo. “Lo scorso anno tutti avevano paura di parlare tra loro in spogliatoio”, aveva commentato a inizio regular season, allontanando poi illazioni e critiche nei confronti dei vari Irving, Horford, Rozier e Morris andati via in estate. Una bella rivoluzione a livello di roster che non solo lo ha portato a essere il giocatore da più tempo in squadra, ma anche uomo imprescindibile per impatto su entrambi i lati del campo. Il dramma personale vissuto con la scomparsa di sua madre malata di cancro lo ha reso ancora più umano agli occhi dell’opinione pubblica e di compagni nei confronti di un giocatore che nel giro di un mese si è preso il posto in quintetto (53 gare giocate, ben 39 da titolare), dimostrando così che anche stavolta Danny Ainge ha fatto un affare mettendolo sotto contratto per quattro anni a soli 52 milioni di dollari.

La svolta con i piedi oltre l’arco e il record personale di triple a bersaglio

Una delle chiavi è certamente quella dell’essere riuscito a diventare un giocatore in grado di incidere in attacco e in modo particolare dal perimetro - presupposto necessario per far lievitare il suo minutaggio oltre i 30 minuti a partita per la prima volta in carriera. È aumentato infatti di riflesso, assieme al suo utilizzo, anche il numero di tentativi dalla lunga distanza (7 a partita, praticamente un tiratore), convertiti con il 35% - un dato in calo dopo un ottimo avvio di stagione. Per i semplici parziali: in 53 partite di regular season Smart ha già realizzato due triple in più (128 in totale) rispetto a quanto fatto nelle 80 gare della scorsa stagione, in cui aveva aggiornato il suo record personale in carriera in NBA di oltre il 30%. La gara simbolo della sua stagione è quella contro Phoenix dello scorso 18 gennaio: 11/22 nel tiro dalla lunga distanza, 37 punti totali, vittoria Boston e 11° giocatore di sempre nella storia NBA a segnare almeno 11 triple in una singola gara. Il primo a farlo con la maglia dei Celtics, entrando di diritto in una classifica in cui può dire di aver fatto meglio di Larry Bird e Ray Allen. Soltanto una suggestione che ben racconta però il suo percorso di crescita.

La vocazione per la difesa (anche dei suoi compagni)

L’efficienza non è quella di Steph Curry, la resa nei pressi del ferro è rivedibile - tanto da condannarlo a un modesto 38% complessivo dal campo -, ma a Boston serviva soltanto che Smart iniziasse a rappresentare una minaccia (e non un deficit) in attacco. Al resto infatti riesce a contribuire con il suo grande impatto difensivo, di energia e di coinvolgimento in un gruppo che ha ritrovato l’anima. C’è un passaggio recente che spiega bene lo spessore, l’impatto e il ruolo che il n°36 dei Celtics ricopre all’interno dello spogliatoio. Poco prima della sosta “forzata” di metà marzo causa coronavirus, Kemba Walker era rientrato sul parquet nonostante i postumi dell’infortunio al ginocchio continuassero a farsi sentire. Tre partite in fila in campo per l’ex Hornets da dimenticare: 12.7 punti di media, 27% dal campo, 20% dalla lunga distanza (5/24). Impatto modesto anche se sommato a quanto fatto vedere nel post All-Star Game. A quel punto la critica che ronzata nella testa di molti è venuta fuori su alcuni giornali di Boston: “Ora che ci stiamo avvicinando al momento cruciale della stagione, Walker inizia a venire meno, a perdere lucidità”. A rispondere sul Boston Herald non è stato il diretto interessato, ma Smart: “Sta giocando nonostante un infortunio che avrebbe messo ko anche un giocatore come me: dite sempre che sono duro, no? Kemba sta andando oltre a qualsiasi difficoltà”. Discorso, e polemica, definitivamente chiusi - quello che viene richiesto a un leader nei momenti complicati. Tutto messo a tacere, proprio come le illazioni di chi non lo riteneva all’altezza di una squadra con ambizioni da titolo. E i Celtics in futuro sperano di dimostrare il contrario.