NBA, Thabo Sefolosha a Sky: "Il video della morte di Floyd mi ha ricordato l’apartheid"
INTERVISTAIl giocatore svizzero di origini sudafricane degli Houston Rockets ha parlato con Sky Sport del momento storico negli Stati Uniti e della brutalità della polizia, di cui è stato vittima nel 2015: "Il video di George Floyd mi ha riportato alla mente molti brutti ricordi, ero triste e furioso. Mi ricorda l’apartheid, le persone sono stanche. Ora le parole non bastano più servono fatti concreti"
Non è un personaggio mediatico, non ha la smania di apparire, non adora troppo i riflettori dei social. La riservatezza di Thabo Sefolosha è direttamente proporzionale al suo spessore umano. Analizza lucidamente le ultime due settimane di protesta in nome di George Floyd, ipotizza i pericoli per il futuro del movimento Black Lives Matter. Il 36enne giocatore NBA, nato in Svizzera a Vevey nel Canton Vaud, parla dalla sua casa di Atlanta (Georgia) in attesa di raggiungere Houston tra 10 giorni per la ripresa degli allenamenti post-quarantena con i Rockets di Mike D’Antoni.
Il suo tono è gentile, ma le parole che pronuncia a Sky Sport sono molto pesanti in merito alla violenza da parte della polizia americana nei confronti delle persone di colore: "Il video della morte di George Floyd a Minneapolis mi ha riportato alla mente molti ricordi, soprattutto nei giorni successivi. All’inizio ero solo molto arrabbiato, è un video orribile: vedere il trattamento che la polizia infligge a una persona è una cosa disumana. Un mix di emozioni: ero triste ma anche furioso".
Occorre fare un passo indietro. Nell’aprile del 2015 in un club di New York scoppia una rissa che coinvolge Chris Copeland degli Indiana Pacers. Anche Sefolosha è dentro a quel locale insieme al compagno di squadra Pero Antic, entrambi all’epoca in forza agli Atlanta Hawks, anche se non si trova nei pressi della rissa. La situazione degenera all’arrivo della polizia. Lo svizzero viene strattonato e picchiato, accusato dalle forze dell’ordine di ostacolare il deflusso. I poliziotti lo afferrano per il collo, gli danno calci alla gamba destra, gli rompono la caviglia. Thabo viene arrestato e rilasciato dopo 15 ore. A causa di questo infortunio serio deve chiudere anzitempo la stagione, saltando i playoff. Rifiuta un patteggiamento, vuole far valere la sua voce in un processo al termine del quale viene assolto. Decide di continuare la sua battaglia facendo causa alla polizia e alla stessa città di New York. Come risarcimento ottiene 4 milioni di dollari: in gran parte lo devolve a una fondazione che aiuta i giovani a studiare per diventare avvocati pubblici.
È sempre stato restio a parlare con i media della sua terribile vicenda, un eccesso di privacy dettato da molte notti insonni, incubi e ferite che difficilmente si possono rimarginare, anche a distanza di cinque anni. “Sai, è successo tutto molto molto velocemente. Il mio incidente del 2015 è accaduto nel mezzo di altri eventi. Al tempo c’erano ancora molte polemiche a causa del pestaggio di Eric Garner nel 2014. Dopo il mio episodio, invece, nel 2016 è scoppiato il caso di Colin Kaepernick, il suo gesto durante l’esecuzione dell’inno americano ha dato vita a un altro movimento, è nata una nuova consapevolezza nell’universo dello sport e del mondo in generale. Ecco, la mia vicenda è avvenuta a metà di questi due fatti. Nella mia mente, come accade a tutti, volevo dare il beneficio del dubbio alla polizia. Quando senti storie come queste, la prima cosa a cui pensi è: perché succedono? Adesso che l’ho provato sulla mia pelle, che ho vissuto qualcosa di simile a New York, so che può accadere a chiunque in qualsiasi situazione. L’escalation di quella notte è derivata dal fatto che i poliziotti abusano del loro potere per motivi di ego o, penso io, soprattutto per motivi razziali. In molti video si vede proprio la loro rabbia che devono scaricare su qualcuno. Quello che è mi è accaduto mi ha aperto gli occhi per poter dire: ok, troppo spesso succede questo alle persone, dobbiamo condannarlo. Dobbiamo davvero dare voce a questi episodi, dobbiamo parlare di tutte le vittime e delle persone che temono davvero per la propria vita qui negli Stati Uniti”.
Le proteste hanno ormai raggiunto una eco globale, complici anche i social. Da svizzero lei vede quello che sta accadendo pure in Europa, le marce di sostegno alla causa Black Lives Matter da Parigi a Londra passando per Roma, Milano o Torino?
“È incoraggiante vedere la reazione delle persone che manifestano lungo le strade aderendo a un unico movimento che non è formato solo da persone di colore. Tramite messaggi come ‘Black Lives Matter’ o ‘Enough is enough’, tanta gente adesso può capire, relazionarsi, appoggiare la causa. Tutto ciò che sta accadendo nel mondo è una cosa partita dalla comunità per la comunità”.
Anche lei ha partecipato ad una marcia di protesta ad Atlanta insieme alla famiglia, la moglie Bertille e le due figlie adolescenti. Sono poco più grandi di Gianna, la figlia di 6 anni di George Floyd. Alla loro età cosa capiscono della situazione? Come spiegate loro tutto ciò che sta succedendo?
“Noi siamo molto coinvolti per tante ragioni. Mia moglie è francese, originaria del Camerun, io arrivo dalla Svizzera ma anche dal Sudafrica. Abbiamo sulle spalle un background di inclusione molto variegato, per questo la nostra visione del mondo è molto più ampia. È ciò che vogliamo insegnare alle nostre figlie, vogliamo spiegare loro il senso della storia. Penso sia importante per i bambini comprendere non solo il momento attuale che stiamo vivendo ma anche tutto ciò che di potente è accaduto prima. Le mie figlie conoscono la storia di Martin Luther King, di Malcom X, leggono i libri di W.E.B Du Bois, altrettanto bene sono a conoscenza dell’apartheid in Sudafrica e tutte le cose che definiscono chi siamo, come vediamo noi il mondo. Da genitori vogliamo condividere tutto con loro. Nei giorni scorsi abbiamo partecipato a una protesta ad Atlanta con tutta la famiglia, mia moglie e le mie figlie. A maggior ragione perché le stiamo crescendo in America dobbiamo discutere di questi argomenti con loro. La brutta esperienza che ho avuto io con la polizia potrebbe accadere alle mie figlie quando cresceranno. Per questo è importante che la gente continui a protestare, a restare unita. Il cambiamento coinvolge la prossima generazione”.
Proteste di questo genere ce ne sono state molte negli ultimi 20 anni. Da quella in nome di Rodney King, pestato violentemente dalla polizia di Los Angeles nel 1991, alla morte di Eric Garner nel 2014 quando tutti voi giocatori NBA siete scesi in campo con la scritta “I CAN’T BREATH”. La percezione è che adesso stia realmente accadendo qualcosa di diverso dal passato?
“Esattamente. Riferendoci all’America, qui le persone sono private dei loro diritti politici e economici a causa della struttura del sistema. Penso che in qualche modo la loro sia una protesta contro il capitalismo. Lo vedete anche voi che ci sono tante persone diverse che chiedono una parità di giustizia, sono arrabbiate per la morte di Floyd, ma ci sono altri nomi di vittime che sono diventati un hashtag da utilizzare. Tanta gente contesta il sistema politico, qualcuno scende in strada per bruciare uffici o quante più auto possibili. Tutti hanno un motivo. Credo sia importante comprendere quale sia la dinamica per cercare di poter capire il problema. Spero davvero che questa situazione possa portare a un cambiamento sistematico, qualcosa di migliore. Spero che tutte queste persone, che ora sono davvero stanche, possano trarre beneficio da ciò che sta accadendo in questo momento”.
Questo vento di cambiamento a cui stiamo assistendo non è quindi destinato a spegnersi nelle prossime settimane?
“Sarà decisiva la risposta del governo. Credo, per tutto ciò che abbiamo visto, che difficilmente si potrà tornare indietro. Le persone ovviamente non continueranno a marciare per strada per un anno intero, o due o tre, ma la loro voce è stata ascoltata. Il messaggio è stato inviato, dall’esterno la gente ha tracciato la strada, ha indicato quali sono i cambiamenti che devono essere fatti. Adesso le proposte devono arrivare dall’interno del sistema, la politica deve dare una risposta al popolo”.
Sefolosha gioca in NBA dal 2006, vive quindi in America da 14 anni ma resta orgogliosamente un cittadino elvetico. La madre è una pittrice svizzera, il padre è un musicista sudafricano. Thabo è davvero il prototipo del cittadino del Mondo.
“Sorrido perché è esattamente quello che mia madre ha detto quando sono nato. Mi ha raccontato che il suo primo pensiero è stato: ‘Wow, sto mettendo al mondo un cittadino del mondo!’. Lo sono diventato a tutti gli effetti viaggiando molto, il basket mi ha dato la possibilità di incontrare tanta gente e culture diverse, dappertutto. È una cosa che amo, conoscere gli esseri umani in quanto essere umani senza invece focalizzarci sulle differenze. Basterebbe concentrarci su tutto ciò che abbiamo in comune, perché è così tanto”.
In Sudafrica i genitori di Sefolosha si sono conosciuti e innamorati, ma poi proprio a causa dell’apartheid sono stati costretti ad andarsene e fuggire in Svizzera. Metà della famiglia paterna adesso, papà compreso, vive ancora a Pretoria. È la città dove Nelson Mandela tenne uno dei suoi discorsi più famosi e potenti. Il 10 maggio del 1994, il giorno del suo insediamento come Presidente del Sudafrica, disse: “È arrivato il tempo per la guarigione delle nostre ferite”. Il tempo di cui parlava Mandela è arrivato ora?
“Io vedo molte similitudini con tutto quello che è accaduto in Sudafrica, niente di buono intendo, in base a ciò che mi hanno raccontato i miei genitori o ciò che ho visto personalmente io. Il video della morte di George Floyd a Minneapolis mi ricorda proprio l’apartheid in Sudafrica, lo capisci quando le persone sono veramente stanche. Spero solo che la gente sappia da dove proviene, da un lungo passato fatto di escalation, di maltrattamenti e di razzismo. Per questo le persone di colore in America hanno coniato lo slogan ‘Enough is enough’ [‘Quando è troppo è troppo’, ndr]. Come hai detto tu, adesso il tempo è davvero arrivato”.
Gregg Popovich, allenatore dei San Antonio Spurs, è uomo tutto d’un pezzo, non si tira mai indietro quando è ora di metterci la faccia, non ha mai avuto problemi a criticare aspramente Donald Trump. Vederlo però così commosso nel dire “Da uomo bianco mi vergogno” è stato molto significativo. Quanto è importante che uomini bianchi di grande influenza, o anche di potere, parlino ad alta voce della causa degli afroamericani?
“Adoro quello che ha detto Popovich e adoro anche Kyle Korver che era mia compagno di squadra negli Atlanta Hawks nel 2015 quando la polizia mi ha rotto una gamba a New York cinque anni fa. L’anno scorso lui ha scritto una lettera aperta, sincera e toccante, una denuncia del suo essere privilegiato in quanto uomo bianco, ha usato frasi molto potenti [la lettera dell’aprile 2019 di Korver, pubblicata su The Players' Tribune, inizia proprio con un riferimento all’incidente accorso a Thabo Sefolosha: Quando la polizia romperà la gamba del tuo compagno di squadra, penseresti che dovresti svegliarti un po’”, ndr].
Così come è importante la voce degli atleti neri e delle persone di colore che sono famose e che possono sfruttare il loro enorme appeal mediatico. Non è un argomento che dovrebbe riguardare solo gli uomini di colore. Gli americani dovrebbero prima o poi capirlo: vanno in giro per il mondo combattendo per la giustizia e la libertà di tutti, poi però quando i loro stessi connazionali piangono per la giustizia e la libertà, cosa fanno? Negano, dicono che non è vero, si rifiutano di sentire certe cose. È vergognoso e spaventoso vedere certe persone che si irritano al solo sentire il semplice slogan Black Lives Matter, si arrabbiano: perché in America certa gente non vuole accettare quello che sta succedendo? Per strada a protestare ci sono milioni di persone, anche bianche, asiatiche e di tutte le razze, ma certa gente si rifiuta di accettarlo. Dicono: no, non sta succedendo nulla, non vogliamo ascoltare. Io questo non lo capisco proprio, per me è spaventoso, probabilmente è il problema numero uno che l’America dovrebbe affrontare”.
Proprio per questo voi campioni dello sport avete un ruolo importante, la vostra voce ha una cassa di risonanza enorme come spina nel fianco di chi rifiuta l’evidenza. Li avete visti anche voi in USA i messaggi dei calciatori della Bundesliga in ginocchio o con scritte di protesta sulle maglie.
“La visibilità degli atleti è fondamentale. Il calcio ha un grande seguito, in particolare in Europa. Quando ho visto molti calciatori protestare o mettersi in ginocchio, ho pensato che fosse fantastico. Anche nel basket la FIBA ha sempre detto di non volere dimostrazioni politiche, ma ha pure compreso la situazione e ha dato il permesso ai giocatori di protestare in modo pacifico. È un grande passo in avanti”.
Questi passi in avanti derivati dalla morte di Floyd rappresentano davvero un punto di svolta nel non tollerare più il razzismo e la brutalità nei confronti delle persone di colore?
“Io lo spero, davvero. Purtroppo dobbiamo stare attenti a non ripetere la storia quando si diceva che a volte una piccola vittoria è meglio di niente. Ora come ora una piccola vittoria non è più sufficiente. Penso a molti posti in America dove c’era ancora la segregazione nonostante la schiavitù fosse stata abolita. Ecco perché dobbiamo stare attenti alle azioni da intraprendere. Non bastano le parole: ci devono essere azioni reali e significative. Le comunità più penalizzate da tutte queste brutalità della polizia devono avere effettivamente una voce in capitolo, devono sapersi difendere nel modo giusto”.