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Boicottaggio NBA, la morte di Martin Luther King e il precedente Sixers-Celtics nel 1968

NBA
©Getty

L’unica situazione simile - ma non nel risultato - a quanto successo tra Bucks e Magic nelle scorse ore, è quanto accadde prima della gara-1 tra Sixers e Celtics il 5 aprile 1968; il giorno dopo l’uccisione di Martin Luther King a Memphis. Una partita che Bill Russell e Wilt Chamberlain non volevano giocare, ma che venne disputata lo stesso

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Le notizie si muovevano molto più lentamente nel 1968 e nell’aprile di quell’anno fu Robert Kennedy - caduto poi anche lui a causa dei colpi di un attentato un paio di mesi dopo - a dare l’annuncio alla nazione della morte di Martin Luther King. Il leader del movimento che chiedeva diritti civili negli Stati Uniti, assassinato a Memphis nel pieno delle proteste contro il razzismo e in favore del diritto al voto. Nessuna sapeva a quel punto che direzione avrebbero preso gli Stati Uniti, compresi i playoff NBA in pieno svolgimento. Il 5 aprile, meno di 24 ore dopo la morte di MLK, era in programma infatti gara-1 delle finali della Eastern Conference (all’epoca si chiamavano Eastern Division Finals) tra Boston Celtics e Philadelphia 76ers. Due delle squadre più iconiche della pallacanestro anni ’60 che mettevano in campo due dei giocatori più simbolici della storia del basket NBA: Bill Russell contro Wilt Chamberlain. Il primo, non appena aveva appreso la notizia, era rimasto letteralmente senza parole nella sua stanza d’hotel a Philadelphia. Sveglio per tutta la notte, consapevole del fatto di essere uno dei giocatori più in vista e coinvolto nel movimento per i diritti civili che vedeva proprio in Martin Luther King uno dei suoi riferimenti. Cosa fare? Giocare oppure no?

La telefonata Russell-Chamberlain e la votazione in spogliatoio

Giocare a meno di 24 ore dalla morte di Martin Luther King sembra assurdo anche perché, ieri ancora più di oggi, tutte le grandi superstar NBA degli anni ’60 erano afroamericane - con l’unica eccezione di Jerry West. La sfida tra Bill Russell e Wilt Chamberlain era uno dei pilastri non solo di quella serie, ma dell’intera lega che da anni godeva della loro rivalità attorno al quale aveva generato attenzione e interesse. Erano loro due la ragione per cui la gente andava all’arena a guardare le partite. Russell decise dunque di telefonare a Chamberlain in quel lungo pomeriggio prima della partita e, nonostante il campione dei Sixers fosse molto più distante dalla questione e dalle battaglie per i diritti civili, era allo stesso modo scosso e intenzionato a fare qualcosa. Si decise di discuterne in spogliatoio e di votare, ma c’era anche chi si opponeva all’idea, come accaduto con Bailey Howell dei Celtics: “Quale era il titolo o il ruolo ricoperto da Martin Luther King? Per quale motivo dovremmo posticipare una partita dopo la sua morte?”. Si votò anche nello spogliatoio dei Sixers, con Wilt Chamberlain e Wali Jones che dissero di non voler giocare, mentre Chet Walker - l’altro afroamericano della squadra - si rifiutò di prendere parte alla votazione. Alla fine quindi, a prescindere dalla considerazione per il personaggio, gara-1 delle finali di Conference tra Sixers e Celtics si giocò - anche perché c’era la netta sensazione che, qualora si fosse deciso di non scendere in campo, Philadelphia sarebbe diventata una delle tante città in cui la protesta razziale stava cominciando a dilagare.

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Lutto nazionale negli Stati Uniti: rimandata gara-2 di quella serie

Alla fine, davanti a 14.412 spettatori che ancora avevano negli occhi le immagini del cadavere di Martin Luther King, andò in scena la partita di playoff, con Boston che vinse per 127-118 in trasferta, nonostante un Wilt Chamberlain da 33 punti e 25 rimbalzi. Decisivi per i Celtics i 35 punti e 11 assist di John Havlicek, in una partita che i due giganti NBA abbandonarono in fretta per prendere parte al funerale di MLK. Gara-2 di quella serie, in programma per la domenica successiva, fu invece posticipata perché programmata nel giorno in cui il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson decide di proclamare il lutto nazionale. A oltre 50 anni di distanza il mondo NBA è profondamente cambiato, così come la sensibilità dei giocatori all’interno degli spogliatoi. In strada invece le cose per gli afroamericani continuano a essere ancora un bel po’ complicate.