NBA, i soliti Miami Heat: Jimmy Butler è l'uomo chiave (ma sul mercato)
NBA ©IPA/FotogrammaGli Heat potrebbero essere arrivati a un bivio. O ricostruire (parola che però a South Beach non è mai piaciuta) o abbassare leggermente le ambizioni. La squadra non è molto diversa da quella dello scorso anno: perché dovrebbero esserlo i risultati? E allora la decisione nei confronti della superstar degli Heat, potenziale free agent a fine anno, potrebbe indicare la via per il futuro immaginato da Pat Riley
Trentasette. Il 37 come numero di maglia agli Heat, in una gara ufficiale, non lo ha mai indossato nessuno, ma è un numero che per la franchigia del sud della Florida potrebbe avere grande rilevanza. Sì, perché questa è la 37esima stagione dei Miami Heat e la sensazione è che a South Beach possano essere arrivati a un bivio: ricostruire o abbassare leggermente le ambizioni. Perché restare aggrappati alla genialità in panchina del miglior coach della NBA - Erik Spoelstra - e alla cultura del lavoro e della lotta, rivitalizzando così anche giocatori sottovalutati, aiuta ad arrivare fino a un certo punto, ma non oltre. Mantiene un livello d’eccellenza costante, ma non costruisce una squadra da titolo. Quasi sempre playoff, la finale del 2020 persa coi Lakers e quella del 2023 col ko subìto da Denver. Imprese superiori al valore del roster, ottenute mixando capacità e sudore, ma che forse minano la possibilità di creare una base davvero vincente. Dominante. Come dicono da queste parti "a lot of excitement, but not cigars". Gli Heat rifiutano da sempre la fase della ricostruzione, quella stagione negativa che diventa il trampolino di un successo. E infatti anche in questa nuova annata sembrano i soliti Heat. Perché non hanno cambiato praticamente nulla nel mercato estivo e si presentano sempre col solito volto. Solite caratteristiche, soliti limiti. Non hanno campioni, ma un livello complessivo buonissimo e un sistema che funziona. Un’impalcatura che regge su una grande difesa e sulla cultura del sacrificio. La Heat Culture. Può bastare? "Non siamo per tutti, quindi non siamo per loro", la frase lapidaria lanciata ai critici da coach Spo ancora a ottobre. Questa stagione dovrebbe servire a capire se c’è un nuovo orientamento. Per scelta o anche per necessità, se un roster logoro dovesse abdicare quasi naturalmente.
Per evitare questo coach Spoelstra ha cercato di proporre una squadra con qualche correttivo ma gli stessi interpreti, a parte il talentuoso (ma acerbo) rookie Kel'el Ware, la guardia svedese Pelle Larsson e il veterano Alec Burks dalla panchina. La novità più grossa forse sta in Nikola Jovic, promosso in quintetto. Decisivo nella vittoria a Minneapolis, reduce dal bronzo olimpico di Parigi, è cresciuto per media punti, a rimbalzo offensivo e nella percentuale al tiro, ma soprattutto in energia e personalità. Utilizzato da 4, oggi qualcuno paragona il serbo a un giovane Toni Kukoc, che attacca, difende e che porta sul parquet quell’idea di velocità che gli Heat vorrebbero proporre. Una squadra più verticale, più veloce, che difenda come sempre ma che ribalti il fronte più rapidamente, crei più spazi offensivi col movimento continuo di uomini e palla e che, essendo sempre un pochino leggera sotto canestro, possa affidarsi ancora di più alle conclusioni dalla distanza e al contropiede. Lo ha confermato lo stesso Jimmy Butler che in estate, tra un viaggio e un altro, ha lavorato particolarmente sul tiro da tre, per migliorare ancora quella che già la passata stagione era stata comunque la sua migliore in tutta la carriera per percentuale da dietro l’arco (il 41.4%).
Altra nota che fa sperare è l’ambientamento ormai completato di Terry Rozier. A lui sono state date le chiavi della costruzione del gioco: arrivato in corsa nella passata stagione, la sua impronta si era vista solo a sprazzi. Qualcuno ha colto qualche similitudine di movimento e di espressione addirittura con Dwyane Wade (!), ma in realtà solo adesso gli Heat stanno diventando la sua squadra. Nei numeri delle prime dieci partite della stagione Rozier è ancora lontano dallo "Scary Terry" d’inizio carriera; le palle perse preoccupano, ma si sta gradualmente inserendo. Nello scorso campionato in coppia con Herro aveva giocato solo 11 partite (di cui 8 in quintetto): adesso che stanno trovando la chimica la responsabilità di produrre vittorie passa anche da loro. Bam Adebayo viene da una stagione discreta, non straordinaria, con un leggerissimo calo per media punti, ma anche da un rinnovo contrattuale importante (3 anni, 166 milioni di dollari) e da un’investitura a capitano ancora di più. E da capitano s’è fatto subito sentire, già al training camp, difendendo la franchigia dalle critiche: "Quest’anno, come sempre, scenderemo in campo per vincere. Non dobbiamo dimostrare che gli altri hanno torto, ma che noi abbiamo ragione, e che il nostro è sempre un progetto vincente".
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Le novità in campo, le novità "sul" campo
Se Adebayo può dare qualcosina in più, chi sta invece trovando più minuti del previsto sono i due rookie, Ware e Larsson. Due giocatori diversi anche in prospettiva, ma egualmente importanti. Un lungo che porta talento, centimetri e persino tiro da tre (anche se poca fisicità a rimbalzo) e una guardia di quantità con gran tiro dalla distanza, ma anche presenza difensiva. Anche per i problemi fisici di Kevin Love e Josh Richardson, a inizio stagione hanno avuto più minuti di quanti abitualmente (a parte Jaime Jaquez) gli Heat concedano alle loro matricole e adesso sono parte integrante delle rotazioni.
Ma le novità a Miami non sono solo in campo, ma anche sul campo. Quello di gioco che al Kaseya Center è stato intitolato alla leggenda Pat Riley (che verrà presto omaggiato anche dai Lakers, con una statua). Trent’anni con gli Heat, è ancora oggi figura fondamentale per qualsiasi decisione della franchigia. Simbolo, punto di riferimento, leggenda, presente in tribuna a ogni match e seduto al tavolo se c’è da prendere qualsiasi decisione importante. Bella idea poi anche quella di realizzare una statua fuori dall’arena per il giocatore più importante della storia degli Heat – Wade, ovviamente; meno bella la realizzazione. Una statua che dovrebbe anche essere l’inizio di un museo nel quale raccogliere, attraverso cimeli, maglie, foto e trofei, una storia che diventa sempre più importante. Un passato prestigioso da celebrare, certo, anche se forse oggi potrebbe essere più fondamentale capire meglio il futuro immediato.
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Jimmy Butler uomo mercato?
Quello di Jimmy Butler, ad esempio. Potrebbe arrivare proprio da lui l’indicazione per risolvere il quesito iniziale sul percorso che gli Heat vogliono intraprendere quest’anno. Il n°22 può uscire dal suo contratto alla fine della stagione. Quest’anno l’accordo gli vale 48.8 milioni di dollari, il prossimo è una player option da 52.4. Un ottimo contratto certo, ma va rinnovato quest’anno - e le parti lo sanno. O gli Heat lo prolungano o lo scambiano prima della deadline. Stessa cosa dal suo punto di vista: o rifirma e resta a South Beach fino al termine della carriera oppure gli conviene andare via quest’anno per ottenere da un’altra parte un accordo pluriennale. I rapporti formalmente sono buoni, ma la sensazione è che le discussioni di rinnovo non siano imminenti e questo renderà più complicata la gestione di un personaggio difficile quando è felice, pensate quando non lo è… Scambiarlo adesso per un giocatore da quintetto e un paio di scelte (o semplicemente per tante scelte importanti) potrebbe essere la scelta più difficile, ma anche quella più giusta. La realtà è che da quando non c’è più Wade gli Heat sono una squadra di buonissimi giocatori, allenati benissimo, che rendono al 120%, oltre le aspettative, alzando il livello della squadra ma anche mascherando il loro vero valore individuale. Manca però il vero campione. Sacrificare un giocatore utile per una contendente al titolo potrebbe essere la prima mossa per cambiare la propria dimensione.