MotoGP, che fine hanno fatto i piloti giapponesi?

MotoGp

Paolo Lorenzi

GettyImages-Harada_1999

Il GP del Giappone della MotoGP a Motegi, ci offre il pretesto per un salto nel passato. Negli anni ‘90 i piloti nipponici erano una moltitudine e alcuni di loro dei veri talenti. Come Okada, Harada, Kato e un certo Abe a cui si ispirò persino Valentino Rossi

Il Giappone e suoi piloti. C’era sempre il timore di storpiarne il nome. Kazuto (Sakata), Nobuatsu (Aoki) e suo fratello Aruchika. Per dirne alcuni. L’unico su cui non si poteva sbagliare era Norifumi, di cognome Abe, facilissimo da ricordare. Ma non fu per questo motivo che Valentino Rossi ne prese a prestito il nome per il suo “Rossifumi”, nomignolo con cui il campione di Tavullia vinse il suo primo titolo nel 1997. Abe era un pilota coraggioso e spettacolare, uno dei tanti giapponesi che hanno popolato il motomondiale. Talvolta in modo un po’ anonimo, altre volte con grande personalità sportiva, negli anni ’90 e inizio 2000, il loro periodo migliore.

Il più vittorioso in 500 fu Tadayuki Okada, Taddy per gli amici europei, che vinse 4 gare. L’ultima in Australia nel 1999. Il più famoso in Italia fu invece Testsuya Harada alfiere dell’Aprilia in 250, con cui vinse il titolo nel 1993, sfiorando il bis in un infuocato finale argentino nel 1998. Il più amato, però, fu Daijiro Kato, faccia da bambino, cuore da campione, polso da fuoriclasse. Vinse il titolo della 250 nel 2001 e scomparve da grande promessa della Motogp, a Suzuka nel 2003. Ultima stella cometa di una galassia di cui oggi resta poco. Il ricordo dell’ultima vittoria in 500, nel 2004, con Makoto Tamada. E la speranza affidata ai giovani come Takaaki Nagakami, combattivo pilota della Moto2, e Hiroki Ono, in cerca di affermazione in Moto3.