MotoGP, quando i caschi e non i numeri erano la "firma" dei piloti

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Paolo Beltramo

Paolo Beltramo

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C'è stata un'epoca in cui l'unico aspetto che identificava il pilota con sicurezza assoluta era il casco coi suoi disegni e colori. Il casco equivaleva a una firma ancor più del numero sulla carena. Storie nella storia di uno sport che cambia anche da questo punto di vista

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Per una lunga epoca nelle corse la tuta era nera, le moto erano semplici, spesso monocolore. L'unico aspetto che identificava il pilota con sicurezza assoluta era il casco coi suoi disegni e colori. Il casco equivaleva ad una firma ancor più del numero sulla carena che cambiava ogni stagione in base all'ordine d'arrivo in quella precedente, o secondo un'assegnazione degli organizzatori per chi esordiva o correva soltanto la gara di casa.

Il casco, quindi. Sia in moto, sia in auto era il segno distintivo dei piloti. Chi di voi non ricorda il tricolore di Giacomo Agostini, rimasto sempre lui nel corso degli anni dalla “scodella” all'integrale? O quello giallo-verde di Ayrton Senna?

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Potevi non sapere che il grande brasiliano fosse passato dalla Lotus alla McLaren, ma se lo vedevi guidare capivi immediatamente che era lui e che aveva cambiato scuderia. La stessa cosa si può dire per Phil Read, Angel Nieto, Kenny Roberts, Wayne Rainey, Freddie Spencer, Mick Doohan, Franco Uncini, Luca Cadalora... praticamente tutti i piloti fino agli anni 2000.

Il primo a fare un casco particolarmente divertente e al di là dei colori della bandiera o dei disegni geometrici fu Barry Sheene che sul suo casco, oltre al resto, aveva disegnato un paperino in un cerchio d'oro. Il campione del mondo londinese della 500 nel '76 e '77 con la Suzuki, fu anche uno dei primissimi, insieme agli americani che avevano già più fantasia, ad utilizzare una tuta colorata, immediatamente riconoscibile. Tanto che un fotografo di moda molto celebre allora, Mc Lean, dopo aver visto la sua caduta spaventosa a Daytona, decise di fotografare la sua splendida moglie Stephanie con addosso la tuta di Barry che era in ospedale. Finì con una diffusione molto importante di quelle immagini, della storia dello scoppio della gomma sulla parte sopraelevato del tracciato della Florida e con l'amore tra Barry e Stephanie...

Ma Sheene, con la sua personalità fantastica, la sua intelligenza acuta, la simpatia e un carattere molto rock&roll fu anche il primo a rendere il suo numero un marchio. Il 7 da allora fu suo, sia che finisse decimo, sia che fosse campione del mondo. Fu Barry, insomma, a lanciare l'usanza del “numero di proprietà”.

Probabilmente non avrebbe mai immaginato quanti seguaci avrebbe avuto: in pratica tutti i piloti lo hanno copiato, ovviamente con altri numeri. Spesso, però, i campioni moderni il numero 1 lo usavano, rinunciano per una stagione, due o più al proprio numero amato. Chi, come Sheene,  ha invece deciso di mantenere sempre il suo amato identificativo è stato Valentino Rossi, che ha reso il 46 non soltanto il “suo”, ma anche un marchio di tutte le sue molteplici attività, mentre col casco Vale ha invece cambiato moltissimo, addirittura molti lo stesso anno (precampionato, stagione, Mugello, Misano, campione...) anche grazie al sodalizio col designer ed amico Aldo Drudi.

Alcuni piloti hanno avuto il proprio numero “ritirato”, inserito nella “hall of fame” da Dorna. Ad esempio il 58 di Marco Simoncelli (e si capisce perchè), ma anche il 34 di Kevin Schwantz (e si capisce meno), oltre ovviamente al 46 di Rossi. Quello che non è stato mai ritirato e invece avrebbe avuto più ragione di esserlo è il 7 di Barry Sheene, il pilota che ha inventato il “sistema” della personalizzazione del numero di gara. Tra l'altro Barry a mio modo di vedere è stato uno dei personaggi più influenti di un'intera epoca e -suggerisco con umiltà a Dorna di considerare l'idea- il suo 7 andrebbe davvero ritirato e dedicato alla sua memoria di innovatore e grande campione.