MotoGP, Franco Uncini: "Non voglio smettere del tutto con le moto"

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Paolo Beltramo

Paolo Beltramo

©Motorsport.com

Franco Uncini è uno dei 'magnifici 7' italiani in grado di vincere il Mondiale in top class, grazie al titolo conquistato nel 1982 con Suzuki. Dopo il ritiro è stato il responsabile della sicurezza dei piloti, eppure a Sky rivela: "A inizio carriera risparmiavo sulle pastiglie dei freni, ero veramente scemo, ora mi sento di consigliare ai giovani di non ripetere quelle cazzate che ho fatto io". A fine 2022 ha lasciato il ruolo di Safety Officer: "Era un impegno totale, ma non voglio smettere del tutto"

Per quasi 50 anni ha fatto parte, in modo importante, del mondo delle corse di moto: dalle gare per esordienti, al Mondiale vinto in 500. E' stato anche team manager vincendo pure lì: un titolo in SBK. Ha lasciato per un paio d'anni il mondo delle moto per fare l'imprenditore, ma poi è tornato al suo vecchio, grande, vero amore ed è stato una delle persone che più ha fatto per la sicurezza delle corse nel mondo intero. Ora è quasi in “pensione”, ma non ha mollato del tutto quel mondo che l'ha accompagnato per tutta la vita e che lo accompagnerà per sempre. Stiamo parlando - anche stavolta l'avrete capito – di Franco Uncini, marchigiano nato a Recanati il 9 marzo del 1955, campione del mondo nel 1982 con la Suzuki 500 del Team Gallina, vincitore della SBK nel 1992 con la Ducati e Doug Polen e dal 1993 impegnato a migliorare la sicurezza nei circuiti e negli equipaggiamenti dei piloti. Molti lo ricorderanno anche per il pauroso incidente di Assen 1983, dove venne colpito alla testa da Wayne Gardner mentre era campione in carica. Alla fine della scorsa stagione ha deciso di limitare i suoi impegni lasciando quel ruolo, ma rimanendo comunque coinvolto nel lavoro anche se meno intensamente. È una lunga intervista, piena di cose belle e curiose, divertenti e dure, lontane e attuali, ma soprattutto sincera, interessante.

Allora Franco, come va da "pensionato"?

"Beh, non è un bel momento perchè il 9 febbraio se ne è andata la mia mamma, ma per il resto va bene direi. Ho scelto di lasciare il mio incarico di FIM Safety Officer perché non me la sentivo più di essere così tanto impegnato. Sai dovevo andare a vedere le piste, a valutare le eventuali modifiche oltre ai test e alle gare. Era un impegno totale. Ma non voglio smettere del tutto, diciamo che mi piacerebbe ridurre, andare a qualche Gran Premio, godermi le gare che mi piacciono da matti e collaborare ancora, magari da casa in video come per altro sto già facendo. Insomma il nonno a tempo pieno non lo faccio ancora, anche perché i miei nipotini vivono a Milano e io invece vivo qua a Recanati"

Hai lasciato in buone mani quella lotta per la sicurezza che ti ha coinvolto per quasi tutta la vita?

"Guarda mi hanno chiesto chi pensavo fosse il più indicato e ho pensato a Loris Capirossi, con il quale ho un gran bel rapporto. Anche se abbiamo corso in epoche diverse, siamo amici e collaboravamo molto bene, ma lui non ha voluto lasciare il suo incarico con Dorna. Così mi hanno chiesto se c'era un altro ex pilota, ma io sinceramente non ne vedevo di disponibili e con voglia di impegnarsi così tanto. Così ho consigliato io Tomè Alfonso, una persona con la quale mi sono trovato benissimo in questi anni di collaborazione poiché è stato quello che ha seguito la costruzione del tracciato di Losail in Qatar e poi ne è stato direttore per 10 anni. Quindi si è occupato di Aragon e ultimamente del tracciato in Ungheria e di quello in Kazakistan. Insomma ha costruito circuiti, li ha diretti e abbiamo fatto tante cose insieme. Sono d'accordo sull'aver scelto lui anche se non è un ex pilota ed è nipote di Carmelo Ezpeleta. È uno che se ne intende e sa cosa fare per migliorare sicurezza e caratteristiche dei tracciati. Anche stamattina ci siamo parlati in videoconferenza: è uno che ascolta e vuole capire e lavora bene"

Franco Uncini e Loris Capirossi - ©Motorsport.com

Insomma ti si vedrà alle gare, ma meno impegnato e più rilassato?

"Le gare di moto sono la mia grande passione, godrò a vederne qualcuna come sempre. Le amo!"

Raccontaci come hai iniziato...

"Beh allora c'erano le derivate di serie e potevi correre con le moto che usavi per strada. Io ho avuto in regalo (dopo settimane di sofferenze) da mio papà un Laverda SFC 750 e ci ho corso a Vallelunga finendo terzo: allora su quella moto c'erano i freni Ceriani i cui ferodi costavano 45mila lire (era il 1873, mica ieri). Io ho saputo che c'era uno che li rifaceva con 2mila lire, quindi ho scelto di risparmiare. Peccato che in gara poco alla volta i freni abbiano perso efficacia e da primo sono finito terzo. Ma è stato sufficiente per darmi fiducia e farmi continuare a fare ciò che avevo sempre sognato. Con quella prestazione ho convinto la mia famiglia a farmi fare altre gare. È iniziata così e allora era possibile, perché non costava moltissimo, anche se risparmiare sulle pastiglie dei freni non era il massimo...".

Insomma, la famiglia ti ha aiutato?

"All'inizio mio papà Ennio non voleva che io andassi in moto. Poi non voleva che corressi, alla fine, grazie all’aiuto di mio fratello Henry e mia mamma Tonia, mi ha fatto fare quella prima gara per accontentarmi, ma prevedendo di non farmi continuare. Ha anche provato a 'ricattarmi' dicendo che se avessi avuto la moto non avrei potuto guidare la macchina (ma io una 126 l'avevo). Mio fratello Henry (che ha gareggiato in auto) e mia mamma invece erano d'accordo a farmi correre, a farmi seguire la mia ispirazione e lo hanno convinto. Era tutta la vita che sognavo di poterlo fare, da ragazzino andavo a letto addormentandomi pensando alle gare e mi svegliavo con le moto in testa... Pensa te!"

Lo avevi capito prima di correre di essere veloce?

"Allora andavo in giro con la mia SFC ed ero veramente scemo. Correvo molti rischi sulla strada, credo di essere stato molto fortunato a non farmi nulla. Ora mi sento di consigliare ai giovani di non ripetere quel tipo di cazzate che ho fatto io. Mario Ciamberlini, una persona fondamentale per me (poi diventerà il mio meccanico di riferimento), andava in giro con me e mi diceva di correre che altrimenti per strada mi sarei fatto male. Disputavamo anche qualche gara illegale con Carlo Perugini, pure lui di Recanati, mio amico e pilota. Insomma Ciamberlini mi disse che era molto meglio correre, infinitamente più sicuro. Andare così forte sulla strada era una follia, ci prendevamo una montagna di rischi".

Franco Uncini in pista nel 1977 al San Carlos International Autodrome (Venezuela) - ©Motorsport.com

Anche se allora l'idea di sicurezza era diversa, diciamo vaga...

"La sicurezza, allora, a metà degli anni settanta era: vai in pista perché tutti vanno nello stesso senso, nessuno ti viene addosso di fronte, c'è sempre un'ambulanza e se cadi ti assistono prima. Insomma, c'era molta strada da percorrere in questo senso e alla fine è diventata la mia strada"

Dopo la Laverda hai corso con Ducati, e nel 1976 quando hai esordito nel Mondiale con la Yamaha in 250 e 350, allora si usava così?

"Sì, feci 4 gare in ognuna delle due classi, andando abbastanza bene. Addirittura in una al Mugello sono finito sul podio. L'anno dopo mi prese l'Aermacchi Harley Davidson come compagno del campione in carica Walter Villa. Con lui non sono mai andato troppo d'accordo, probabilmente per una questione d'età: io ero il giovane rampante che arrivava e rompeva le scatole al campione. Credo che gli abbia dato fastidio la mia prestazione alla 100 miglia di Daytona, quando mi stavo giocando il successo con Kenny Roberts e Steve Baker con la Yamaha e Gregg Hansford con la Kawasaki. Purtroppo il freno anteriore della Campagnolo si era un po' surriscaldato e sono andato lungo alla chicane che precedeva la sopraelevata. Ma avevo dimostrato di essere veloce. Quell'anno sono arrivato secondo nel Mondiale 250 dietro a Mario Lega e davanti a Villa, vincendo 2 gare. L'atmosfera non era però eccezionale e allora sono andato alla Yamaha Venemotos, la squadra di Andrea Ippolito che aveva fatto correre Cecotto e poi Lavado ed era il padre del futuro presidente della FIM, ma con il capotecnico Ferruccio dalle Fusine non era per me facilissimo. Insomma nel 1979 ho deciso di comprare una Suzuki 500 e fare un team privato con Mario Ciamberlini, mio fratello team manager, mio papà e mia mamma come cuoca del team"

Franco Uncini in pista a Daytona con il numero 308

E sei diventato a modo tuo una leggenda: il privato più veloce del mondo!

"Sì, sia nel 1979 che nel 1980, una volta quinto, l'altra quarto alla fine, più quache pole. Non capivo perché non mi dessero una moto ufficiale, ma nel 1982, dopo un altro anno da privato, arrivò la mia chance con Gallina al posto di Lucchinelli che da campione era passato alla Honda. Quella stagione è andato tutto bene e ho vinto il titolo aritmeticamente in Svezia ad Anderstorp, dove mentre festeggiavamo in piscina è caduta una lampada accesa in acqua... Meno male che era isolata bene!"

Nel 1983 la moto però non andava bene. Forse perché non c'era più il collaudatore Kawasaki?

"Proprio così. Lui, che era anche un ottimo pilota, non si era occupato dello sviluppo della moto con il telaio a tubi di sezione quadrata con un sacco di saldature. In Giappone lavorano così: ti faccio un esempio il progetto era X R 45, dove la X stava per motore 4 cilindri in quadrato, R per racing e 45 era il numero progressivo del progetto. Se il collaudatore lo promuoveva si usava, altrimenti si passava al 46 eccetera. Quell'anno è stato promosso quel telaio e non so perché, visto che era facile capire che fosse peggiore, ma tant'è. Comunque Kawasaki passò alla Yamaha che dal 1984 cominciò a vincere con Lawson e a diventare la moto più guidabile"

Franco Uncini in sella alla Suzuki - ©Getty

Poi però non hai più trovato un ingaggio degno di un campione come te

"Credo che mi sia mancato un manager capace, uno come Carlo Pernat per intenderci. Io stavo a casa ad aspettare che mi chiamassero e invece avrei dovuto propormi, chiamare, parlare... Comunque non ho più avuto moto competitive, anche se Gallina diceva che in Giappone lavoravano, lo sviluppo si era fermato. Nel 1985 mi sono ritirato e se dovessi decidere adesso non mi fermerei così giovane, a soli 30 anni, anzi andrei avanti fino a 50 vista la passione che ho"

Nel 1983 c'è anche stato quel terribile incidente ad Assen...

"Sì, il momento peggiore della mia vita. Ovviamente non ricordo molto, ma è stato un errore mio cadere alla prima curva, ma anche Gardner che mi ha preso ha sbagliato per inesperienza, d'altronde era alla sua prima gara nel Mondiale 500. L'anno successivo non avrebbe più fatto quella traiettoria esterna, ma allora è andata così, di sfiga, ma anche di culo perché un millimetro più in qua o più in là e potrei non essere qui a raccontarla. Poi, quando sono tornato mi sono ripreso bene, mi sentivo in forma perfetta, non provavo paura, ma non avevo neanche più una moto competitiva e così poco dopo ho chiuso"

Franco Uncini indica il 1982, anno in cui ha vinto il Mondiale in top class con la Suzuki

Comunque già dal 1979 eri un impegnato nella lotta dei piloti per una maggiore sicurezza

"Allora se chiedevi cinque balle di fieno in più ti dicevano, seduti nella loro scrivania, di non esagerare, che se correvi eri conscio che potevi farti male, altrimenti potevi stare a casa. Comunque non si mollava e ho cercato in tutti i modi di ottenere il più possibile in termini di sicurezza"

A Spa-Francorchamps c'è stato quello sciopero capitanato da Roberts, Seneghe, Ferrari e te. Ricordo voi là in cima sul balcone e il paddock sotto ad ascoltare, a capire, ad appoggiare...

"Sheene, Roberts e io, con l'avvocato inglese Barry Coleman, avevamo in mente di disputare le 'World Series', in pratica un altro campionato, fondando una Federazione alternativa. Avevamo già un incontro programmato con Bernie Ecclestone in Portogallo per dare il via al progetto. Poi non se ne fece nulla, ma la Federazione internazionale cominciò a essere più sensibile alle nostre richieste. Probabilmente senza saperlo avevo scelto la mia strada, anche perché già in quegli anni gli altri piloti mi avevano incaricato di occuparmi di sicurezza"

Ai tuoi tempi c'erano piloti molto divertenti come Graziano Rossi (papà di Valentino) che girava con una 600 multipla dipinta a strisce bianche e rosse, Marco Lucchinelli che andava a Sanremo a cantare, Barry Sheene che era una specie di mito internazionale amico di piloti di F1, cantanti, musicisti... Tu invece eri più posato, più serio, facevi un po' il distaccato, il fighetto...

"In realtà dentro di me ero come loro, ma volevo differenziarmi e allora ho interpretato quel ruolo e bene direi se ci avete creduto così tanto... Se ti ho detto qualche cavolata era perché volevo sembrare diverso"

Anche sugli allenamenti eri un po' diverso. Dicevi, riferendoti a Virginio Ferrari, che si allenava già allora come un matto, che la moto 'se deve guidà, non se deve spezzà'

"In effetti con quelle moto da 115 chili non serviva l'allenamento. Un paio di inverni ho provato a fare ginnastica, ma una volta in pista le sensazioni erano quelle di sempre: alla fine della prima gara della stagione arrivavi sfinito, alla seconda un po' meno, alla terza stavi quasi bene e alla quarta non avevi più alcun problema. Quindi non ne ho mai fatta molta di ginnastica, anche perché non c'erano allenamenti specifici per chi correva in moto. Oggi però è diverso le moto hanno 300 cavalli, pesano oltre 170 chili con il pieno, frenano molto di più. Serve tanta forza, anche se hai gli aiuti elettronici e quindi allenarsi è necessario. E poi esistono specialisti che hanno trovato allenamenti specifici. Allora in tanti fumavano, oggi nessuno”

Però c'era la partenza a spinta...

"Sono sempre stato favorevole a partire con il motore in moto. Se le corse servivano per migliorare la produzione di serie, per trovare nuove soluzioni, che senso aveva spingere per avviare la moto? La gente mica spingeva ad ogni semaforo o quando tornava a casa da scuola o dal bar. L'ho chiesto spesso alla federazione, ma l'hanno tolta nel 1987, quando purtroppo avevo già smesso..."

Una partenza a spinta nel 1977 - ©Motorsport.com

Oggi i circuiti sono indubbiamente molto più sicuri. Però come erano belli certi tracciati del passato, ad esempio il vecchio Assen e il vecchio Nurburgring...

"Di quell' Assen, anche se lì ho passato il giorno peggiore della mia vita, ti posso ancora dire che erano 34 curve... Un circuito fantastico, bello, unico. E anche il Nurburgring era una vera figata. Ai miei tempi potevi girare prima della gara e allora mi sono fatto prestare una Kawasaki 650 quattro cilindri da un mio amico e ho girato fino a quando non ho cominciato a toccare tutto: pedane, carter, cavalletto sia a destra che a sinistra. Appena gliel'ho resa il mio amico mi voleva menare, ma poi andava in giro dicendo che era stato lui a limare tutto piegando, faceva il figo... Comunque era bellissimo il vecchio Nurburgring"

Quando hai smesso di correre all'inizio non sei rimasto nel mondo della moto però

"Sì, ho aperto un'azienda di perforazioni petrolifere con un mio amico ed eravamo partiti benissimo, ma poi dopo un paio d'anni c'erano della differenze di vedute tra di noi, lui era più anziano di me. Allora ho detto: o compro, o vendo. Ho venduto e sono tornato nel mio mondo, quello della moto"

E cos'hai fatto per prima cosa?

"Stavo per fare un 'Team Roberts B' con Kenny. Avevamo contatti con la 7UP per la sponsorizzazione e ci avevano detto che avrebbero scelto le moto e non la F1. Poi due giorni prima che andassimo a Londra per firmare ci chiamano e ci dicono che avevano deciso di chiudere con la Jordan in F1 e così la cosa è finita. Kenny aveva l'appoggio di Yamaha, Marlboro e altri ma io no e quindi non ho voluto rischiare soldi miei per quell'avventura"

Poi però il team manager l'hai fatto comunque...

"Sì, nel 1992 Giancarlo Falappa mi ha chiamato perché aveva bisogno di una mano e mi ha chiesto di fare un Team. Allora sono andato dai fratelli Claudio e Gianfranco Castiglioni, che oltre alla Cagiva allora avevano anche Ducati e mi dicono ok, ma devi prendere anche Doug Polen che era il campione in carica. Abbiamo vinto ancora il titolo, ma Falappa probabilmente era un po' geloso dell'americano che era fortissimo e anche metodico, molto tecnico, capiva la moto, mentre lui era fortissimo, un vero talento, ma viaggiava più di cuore e non era tanto bravo tecnicamente"

Come mai hai smesso?

"Nel frattempo mi avevano chiamato Loris Reggiani, Kevin Schwantz e Wayne Rainey per farmi fare il rappresentante della sicurezza. Loro avevano già Didier de Radigues, che però non si impegnava molto, arrivava alle 10 di mattina, non lavorava granché, non si impegnava come avrebbero voluto. Io ho risposto che ci avrei pensato, anche perchè nel mondo della SBK ero visto un po' come quello dei GP che arrivava lì... e anche vincendo. Poi sono andato da Claudio Castiglioni che per il 1993 mi voleva ridurre dotazioni tecniche e budget. Allora sono uscito dall'ufficio e appena in macchina ho chiamato Loris Reggiani e ho detto che avrei accettato e siamo andati subito dall'avvocato Minguzzi di Bologna e via"

Hai lavorato per i piloti, con l'Associazione dei team (IRTA) e poi con la Federazione e hai creato la 'Safety Commission' che si riunisce di solito dopo le prove. Ai tuoi tempi non c'era...

"Il nostro era un ambiente bellissimo, dove ci volevamo bene fuori dalle gare, in pista gli amici non esistevano, ma fuori era diverso. Allora avevamo meno impegni e parlavamo molto tra di noi nel paddock, sotto le tende, nei motorhome, magari uno o due alla volta in modo informale e magari casuale, ma in fondo efficace. Oggi un rapporto come il nostro quotidiano lo vedo nelle riunioni della Safety Commission, dove sono tutti rilassati, amici, parlano volentieri e non hanno nessuno che li pressa"

Sono veri quegli abbracci a fine gara tra di loro?

"Il fine gara, anche se non sei tra i primi, per me era sempre un momento speciale, bello quando la tensione e l'adrenalina calano e credo che quello che fanno i piloti di oggi sia sincero. A fine gare è tutto diverso"

Un abbraccio tra Pecco Bagnaia e Fabio Quartararo a fine gara - ©Motorsport.com

La tua ultima esperienza motociclistica?

"Nell'agosto del 2022 c'era un raduno a Bolognola, organizzato proprio dal moto club Franco Uncini, un posto dove d'inverno si scia. Mi hanno invitato e ho deciso di fare una sorpresa: senza dirlo sono andato in moto. Ho preso la GSXR 1000 dipinta coi miei colori di quando ho vinto il mondiale che Suzuki mi ha dato in uso (come ha fatto anche con Lucchinelli, Kenny Roberts Jr e Mir, ognuno con la propria livrea vincente) e sono andato. Anche se alla fine del viaggio ero inchiodato e dolorante per mancanza di allenamento, ma che libidine su quelle strade di montagna! Sono tornato il ragazzino della Laverda SFC del '74 e ho avuto la conferma che la mia passione non finirà mai. Sono tornato a casa davvero molto felice"

Nostalgia delle 500 a due tempi?

"Beh, sì, ma le cose cambiano. Io credo che le corse siano anche un test per le moto di serie, per innovare e trovare nuove soluzioni e tecnologie. Una volta che più nessuno costruiva moto a 2T, che senso aveva continuare con quei motori soltanto nelle corse? Bene la MotoGP, anche se si può sempre migliorare"

Hai avuto una bella carriera, sei stato un riferimento per generazioni di piloti, hai una moglie fantastica, Cinzia e due figlie altrettanto belle e simpatiche, Veronica e Ludovica. Ora sei nonno. Nipotini da corsa? O fai come Capirossi che suo figlio quando vede che è interessato alla moto lo sfinisce fino a fargliela sembrare una pezza?

"Chissà, vedremo… ed è vero sì, Loris me l'ha detto! Lo massacra, lo stanca psicologicamente! Mio nipote Romeo è ancora indeciso tra moto e sci, vediamo, anche se non è mai troppo tardi per scoprire di essere follemente innamorato delle corse di moto. Fidati, se succede nessuno ti può fermare"

Franco Uncini, 67 anni - ©Motorsport.com