Non bastano la moto, il team e piloti di talento. Se KTM non perde un colpo dal lontano 2001 con Fabrizio Meoni, probabilmente non è per caso. Alla Dakar serve qualcosa in più
Anche quest’anno alla Dakar vince KTM ed è nientemeno che la diciassettesima volta consecutiva. Una serie che fa impressione, inaugurata nel 2001 - è il momento giusto per ricordarlo - dal nostro grandissimo Fabrizio Meoni, scomparso l’11 gennaio 2005 e che tanto ci manca. Questa volta è Matthias Walkner che trionfa, per la prima volta nella quarantesima edizione del rally; e il giovane austriaco capitalizza una gara molto particolare. Una gara che sembra sia stata decisa dagli errori più che dalle imprese. Ma forse, a ben guardare, è sempre stato così.
Perché è una corsa molto particolare, la Dakar. Contano anche qui gli ingredienti tipici delle gare motoristiche: talento, tecnica, organizzazione, passione e poi la fortuna. Se non sei bravo, se non sei tecnicamente ben equipaggiato, inserito in una squadra eccellente, e anche fortunato almeno un po’, ciao...Ma c’è qualcosa che qui è determinante più che altrove: l’approccio. Lo notavo quando seguivo direttamente la gara, da Parigi al lac rose di Dakar: sbagliare il ritmo, sbagliare la navigazione, sbagliare il momento giusto per l’attacco, sbagliare la traccia, era anche vent’anni fa la cosa più facile del rally e insieme la più frequente. La selezione, allora come oggi, si faceva sugli errori individuali. E lo si capisce bene: in una gara così lunga e complessa ciò che prevale è la lucidità, il controllo, l’equilibrio del pilota. Ma il punto è che c’erano squadre che favorivano questa condizione, mentre altre - naturalmente senza rendersene conto - di fatto la ostacolavano.
Parlandone genericamente, i maestri erano i francesi. Sapevano prepararsi molto bene, meglio di tutti per esperienza e mentalità, e poi se la giocavano con il sorriso sulle labbra e quell’aria ironica che ci dava tanto fastidio. Noi, così così. In Cagiva sì, c’era un bel clima, Roberto Azzalin ci sapeva fare, si lavorava fortissimo ma con allegria, meccanici e piloti erano legati, i risultati arrivarono con i tempi giusti. In altri team era tutto più difficile. Sembrava che dovessero vincere per forza. Obiettivi e budget erano probabilmente analoghi -roba grossa - ma in certe squadre si respirava l’aria pesante di chi deve portare a casa tutti i giorni il risultato. Quando il pilota vinceva la speciale, festa grande, se appena beccava dieci minuti di ritardo musi lunghi. “Stasera vieni a mangiare due spaghetti da noi?” Era meglio guardare prima la classifica, o rischiavi di cenare nel gelo, in uno di quei cupi silenzi carichi di tensione che trasmettono disagio e infelicità. Come poteva vincere la Dakar un pilota tenuto così tanto sulla corda?
Ecco cosa intendo. Per vincere la Dakar ci vuole passione, talento, tecnica, organizzazione e anche fondo schiena. Ma soprattutto ci vuole serenità. C’è chi, come KTM, evidentemente ha imparato da anni la lezione. E altri invece che, per mentalità o per carattere o chissà cosa, ci provano, ma non ci arrivano.
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