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NBA, Golden State Warriors: è giunto il momento di parlare di Alfonzo McKinnie

NBA

È spuntato nello spogliatoio degli Warriors dal nulla e si è preso di forza il suo spazio sul parquet. Negli ultimi giorni tutti ne hanno scritto negli Stati Uniti e non potevamo esimerci dal raccontare la storia del volto nuovo dei campioni NBA

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Hermosillo, Messico, primavera 2016. In una specie di rosticceria vicino la palestra dove si allenavano (e forse lo fanno anche oggi) i Rayos de Hermosillo, Alfonzo McKinnie sta ingurgitando qualsiasi tipo di prelibatezza presente sul menu, felice di disporre di uno sconto del 40% come bonus aggiuntivo al suo modesto contratto di giocatore di pallacanestro. In tv, i Golden State Warriors stanno asfaltando qualsiasi avversario si trovino davanti: “Guardavo tutte le loro partite, probabilmente ho mangiato ogni cosa presente nel menu di quel bar”, racconta sorridente mentre indossa la tuta dei bi-campioni NBA in carica. “Quello non è stato neanche il momento di massima distanza in vita mia dalla NBA, in quel caso almeno giocavo nel loro stesso continente”, racconta con tono serio. Pochi mesi prima infatti si era ritrovato in una fredda palestra in Lussemburgo, a disposizione di una squadra di seconda divisione di uno dei più piccoli Paesi d’Europa. Era il 2015 e la sua carriera a 23 anni sembrava già finita: “Ero l’unico americano in squadra [difficile credere che qualcun’altro accetti un’offerta di quel tipo in effetti, ndr] ed ero un bel po’ lontano da casa. È stato uno shock culturale perché mi sono ritrovato totalmente isolato: i miei compagni avevano un lavoro regolare, ci allenavamo una volta la settimana. Poi io tornavo a casa, loro andavano a guadagnare con un lavoro vero”. In Messico invece, i problemi erano altri: si giocava alle volte all’aperto, come accaduto nel retro di un capannone industriale con un tetto provvisorio e la situazione ambientale non sempre era delle più tranquille: “In trasferta ci scortava la polizia con le armi in bella mostra, non avevo mai visto una cosa del genere. Ho visto ragazzi costretti a mettersi faccia al muro con un fucile puntato contro, mentre l’allenatore ci raccomandava di restare in albergo e di uscire soltanto in gruppo”. Tutto questo non più di due anni e mezzo fa. La domanda a questo punto sorge spontanea: come diavolo ha fatto McKinnie ad arrivare ai Golden State Warriors partendo da lì?

L’opportunità con i Bulls e la consacrazione in G-League

Nativo di Chicago, cresciuto alla Marshall Metropolitan High School, la stessa di Arthur Agee – protagonista del documentario Hoop Dreams – e finito poi alla Eastern Illinois e a Wisconsin-Green Bay (dove fu bloccato da un paio di operazioni al ginocchio destro), McKinnie era destinato alla solita parabola infelice del “grande talento bloccato dagli infortuni”. Se solo non avessi dovuto operarmi, avrebbero ripetuto molti come un mantra. McKinnie invece, tornato a casa dal Messico nell’estate 2016, scelse di darsi un’ultima chance disputando dei tornei 3 contro 3 per provare a essere notato da Randy Brown, assistente allenatore dei Bulls che faceva degli allenamenti durante quelli eventi: “Che cosa ho da perdere?”, si era domandato prima di impressionare sul parquet (ha partecipato anche ai campionati del mondo FIBA di 3 vs.3 disputati a Guangzhou in Cina) e seminare così una traccia rivelatasi poi decisiva. Lo stesso Brown infatti è stata la chiave di volta per penetrare nel mondo NBA. Fu l’assistente dei Bulls a contattarlo qualche mese più tardi, di prima mattina per chiedergli di andare ad allenarsi con alcuni giocatori NBA (“Puoi essere qui all’Advocate Center in 20 minuti?”). Così, dal nulla, l’opportunità attesa da una vita. “Non mi sono neanche lavato i denti”, racconta prima di essere schizzato in palestra ad allenarsi. Da lì la G-League con Chicago (dovendo pagare per giocare), conquistando con quasi 15 punti di media l’All-Star Game della lega di sviluppo. “In quegli allenamenti con Butler, Wade, Mirotic e gli altri ho capito di poter stare in campo con loro. Una volta ho schiacciato in testa a Robin Lopez, tutti sono impazziti e mi hanno detto “Bravo, questo è l’approccio che devi avere!”. E proprio quell’atteggiamento mi ha permesso di tornare in palestra un giorno dopo l’altro, poi però ho dovuto affrontare i tryout [le selezioni per accedere in G-League]. Ho pagato 175 dollari, ma già mi conoscevano: c’era gente di 40 anni in fila per provare a giocare con l’affiliata dei Bulls, per me invece è stata un formalità”.

L’esordio NBA con Toronto, poi il contratto e la casa per la madre

“Sentivo che quello era il mondo in cui avrei voluto trascorrere la mia vita”, continua a raccontare, come confermato anche la scorsa stagione a Toronto; la prima squadra a farlo esordire anche in NBA: 14 partite, 53 minuti totali. Un assaggio che gli ha fatto aumentare la fame: “Ero diventato importante in G-League, in molti facevano il mio nome. Ho fatto provini per Utah, Indiana, Clippers, Utah e Brooklyn. Alla fine sono passato dai Raptors e loro hanno scelto di puntare su di me. Toronto mi ha spiegato come dovevo lavorare, mi hanno fatto crescere e capire come agire in un mondo complicato come la NBA. Ho preso un agente e alla fine, quando mi hanno chiesto di giocare in Summer League, per la prima volta mi hanno offerto loro dei soldi per far parte del gruppo”. Un passaggio fondamentale, come quello vissuto sull’aereo degli Warriors meno di un mese fa. In volo tra Las Vegas e San Jose, 11 ottobre, Steve Kerr chiede di parlare con lui: “Mi hanno svegliato e mi hanno detto che il coach aveva chiesto di me: in una situazione del genere, non sia mai quello che vogliono dirti fino a quando non pronunciano quelle parole davanti a te. Ho pensato: ‘Ecco, il mio Giorno del Giudizio sta per arrivare su questo aereo’”. Kerr invece gli ha detto che sarebbe rimasto, vista la complicata situazione contrattuale di Patrick McCaw e la scelta degli Warriors di puntare su DeMarcus Cousins, al momento ancora infortunato e quindi costretti a prendere un giocatore con le caratteristiche simili alle sue per “tappare il buco”. Quel giorno niente taglio, ma primo two-way contract diventato un accordo ufficiale con l’NBA: 1.3 milioni di dollari (non garantiti), ma sufficienti per fare il grande passo, ossia comprare casa a sua madre:“Le ho detto che avremmo potuto permettercene una, a un prezzo ragionevole. Per fortuna l’ha trovata”.

L’ottimo impatto sul parquet con gli Warriors

La vera notizia però è che Alfonzo McKinnie prima di tutto funziona (alla grande) sul parquet, con buona pace di chi sperava che Golden State perdesse l’opportunità di disporre di riserve di livello. Contro la sua Chicago è arrivata la consacrazione (sempre sotto i radar, visto che le attenzioni erano tutte concentrate sulle 14 triple messe a segno da Klay Thompson): 19 punti e dieci rimbalzi contro i Bulls, a conferma del suo straordinario momento (contro Memphis 14 punti con nove tiri, determinante nello strappo che ha deciso la gara contro i Grizzlies). “La gara contro Chicago è stato uno dei giorni più belli della mia vita: mia madre mi ha raggiunto in albergo prima della partita per farmi firmare le carte per permetterle di comprare la casa. Un sogno, avevo raggiunto il mio obiettivo. Poi sono sceso in campo a mente sgombra, mentre sugli spalti avevo tutta la mia famiglia e i miei amici. Ripeto, uno dei giorni più belli della mia vita, coronato con la prima doppia doppia in NBA a casa mia”. Un giocatore che può fare comodo a questa squadra, non fosse altro per girare e pubblicare video in spogliatoio come capitato durante la trasferta a Brooklyn per rispondere alla polemica sull’inno americano scatenata dalla risata di Draymond Green durante l’esecuzione di Fergie. Il balletto sulle note della versione remix dell'inno ha fatto il giro del web e quello forse è stato il primo vero momento in cui un bel po’ di persone, trovandosi per caso sul suo profilo Instagram si sono chieste: “Da dove diavolo arriva questo Alfonzo McKinnie?”. Be', adesso lo sapete.