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NBA, perché LeBron James non ha partecipato alla call di Kyrie Irving

POSIZIONE
©Getty

Tra gli 80-100 giocatori che hanno partecipato alla conference call organizzata da Kyrie Irving non c’era LeBron James. La stella dei Lakers infatti ritiene che giocare a Orlando non impatti la sua possibilità di ispirare un cambiamento sociale come sempre fatto nella sua carriera, tra cui recentemente con la creazione di "More Than A Vote"

Nella serata di venerdì l’associazione giocatori è stata scossa dalla conference call indetta da Kyrie Irving per permettere a tutti di esprimere i propri dubbi e preoccupazioni sul ritorno in campo in un periodo di grandi agitazioni sociali negli Stati Uniti. Tra gli 80-100 partecipanti della call non mancavano i grandi nomi, dal presidente della NBPA Chris Paul a superstar come Kevin Durant e Russell Westbrook, ma un nome sugli altri spiccava per la sua assenza: LeBron James. La stella dei Los Angeles Lakers infatti ha sempre mantenuto fede alla sua posizione sul ritorno in campo: James vuole giocare e finire la stagione 2019-20. “Nessuno cancelli la stagione” aveva tuonato lo scorso 30 aprile quando erano emersi i primi rumors di dirigenti che chiedevano di sospendere il 2019-20. E anche oggi, tramite Sam Amick di The Athletic, James ha ribadito la sua posizione: giocare a Orlando e inseguire il titolo con i suoi Lakers non gli impedisce di continuare a ispirare il cambiamento sociale fuori dal campo, come ha sempre fatto nella sua carriera. Pur riferendosi a se stesso come “More Than An Athlete”, infatti, James ha sempre sottolineato come “the main thing is the main thing”, cioè che la pallacanestro deve comunque mantenere un ruolo centrale nella sua vita e nella sua carriera. Anche perché è quella che gli ha permesso di avere enorme influenza per le vite delle persone, ad esempio creando la “I Promise School” nella sua Akron o, giusto per citare l’ultima iniziativa, l’associazione no-profit “More Than A Vote” per incoraggiare il diritto al voto per le prossime elezioni presidenziali. Tutte attività che non entrano in conflitto — e anzi vengono amplificate — dal suo status di icona globale, diventando uno degli sportivi più rispettati di sempre per il proprio impegno sociale e civile. Secondo alcuni — anche all’interno dell’associazione giocatori — l’attuale mancanza di sport dal vivo renderebbe ancora più forti i messaggi mandati dalla bolla di Orlando da parte dei partecipanti alle partite, ad esempio inginocchiandosi durante l’inno nazionale come fatto da Colin Kaepernick nella NFL o portando le questioni del movimento Black Lives Matter nelle interviste in diretta. Il ritorno in campo, insomma, funzionerebbe da cassa di risonanza per le questioni che gli Stati Uniti stanno affrontando e non come deterrente. La volontà di giocare a pallacanestro e quella di esprimere la propria opinione, insomma, non sono in contrapposizione — ma possono essere utilizzate per alimentarsi l’un l’altra.