Tardelli, 70 anni e la dolce condanna dell'urlo "mundial"

Estate 1970. Marco Tardelli ha 15 anni e fa il barista al Ciocco, in Toscana, dove è in ritiro il Napoli di Chiappella. Non è ancora 'Schizzo' ma nessuno slalomeggia tra i tavolini con la sua stessa rapidità. È adolescente inquieto, ha dna contadino e indole ribelle, la sfrontatezza è già specialità della casa. Ma quel giorno che Zoff gli chiede di servirgli un caffè, l'emozione lo stravolge, lo inchioda, Marco riesce a fare il suo dovere, ma con gli occhi bassi, le gambe tremanti. Comprensibile, Dinone ai tempi era già un simbolo, un Campione d'Europa. Lui solo un apprendista sognatore, cresciuto tra i monti della Garfagnana e la periferia pisana. Poi accade l'imprevedibile. Con le sue leve secche, il volto scavato, Tardellino si mette in testa di smentire i tanti, i troppi, che bocciandolo ai provini lo ritengono inadatto a fare il calciatore. "Con quel fisico così gracile — si sente ripetere — è meglio che si dedichi ad altro”. E se l'avesse fatto davvero, magari scegliendo le piste d'atletica, di sicuro sarebbe diventato un formidabile mezzofondista. Marco invece fa il pieno di bistecche, mette su chili e muscoli e insegue il suo posto al sole prima nel Pisa e poi nel Como. Parte da terzino fluidificante, divorando zolle e centravanti, ma nel suo repertorio in costruzione già brillano le attitudini da universale. Ha gambe come molle, come lame, e poi sana arroganza, e il talento lo spende tra gregariato di lusso e impennate di tremendismo. In tanti lo notano, lo vorrebbero, il più scaltro è Boniperti che lo soffia all'Inter, il club del cuore del giovane Tardelli. Il resto è il decollo di una grande storia, con Coppe e scudetti a pioggia. Perché cinque anni dopo quel caffè al Ciocco, Marco approda nella Juve trapattoniana e Zoff diventa suo compagno di squadra. E quando nello spogliatoio Tardelli gli ricorda quell'incontro, il portiere si alza di scatto e davanti al gruppo, indicandolo, annuncia: "Oh, ragazzi, abbiamo comprato un cameriere". È questa l'aneddotica che insaporisce la narrazione attorno al fresco settantenne Tardelli, che la vita l'ha sempre azzannata, centimetro dopo centimetro, curandosi poco di sembrare uomo più di lotta che di stile. "Come regalo ho avuto il talento - ha sempre ringhiato - tutto il resto me lo sono ostinatamente sudato". Un'esistenza, in fondo, divisa a metà, perché dopo l'urlo al Bernabeu, quei sette secondi gonfi di felicità primordiale, per lui non ci fu più un 'prima' e forse neppure un 'dopo', come se il ricordo di quel grido ancestrale, di quella corsa selvaggia lo avessero costantemente perseguitato, tenuto in ostaggio, impedendogli di vivere il presente. Dolcissima condanna. E infatti, ancora oggi, nell'immaginario comune, ad oltre quarant'anni dal trionfo Mundial, Marco Tardelli insiste nel godere dentro quegli istanti estatici, i pugni serrati, le vene gonfie, la bocca spalancata, le pupille enormi, lo sguardo paurosamente trasfigurato. Un urlo rimasto impigliato nelle pieghe della sua vita. E in milioni di altre. "Per molti anni mi sono visto come un matto, oggi penso che quell’urlo descriva quello che ero, un ragazzo di provincia improvvisamente in cima al mondo". La celebre scapigliatura tardelliana. Qualcosa di non riproducibile. Il campo a diventare prateria, il dono dell'ubiquità ad esaltarne l'esplosiva vitalità. Tardelli e le sue rabbiose accelerazioni, seguendone il solco intere generazioni hanno rincorso i propri desideri, come oggi accade a Barella, a Frattesi. La corsa come gesto tecnico, con la rombante complicità di tendini, nervi, cartilagini. All'epoca quelli di Tardelli erano lampi rivoluzionari, come gli strappi, i recuperi, i tackle, gli inserimenti, gli spunti tra le linee, come tutti quei muscoli aggrovigliati attorno alla gola nella notte di Madrid, quella del trionfo della banda Bearzot, il Ct prima vilipeso, poi beatificato. Lui e Tardelli, il Vecio e il Coyote, anime in tumulto, le notti spagnole consumate in coppia, parlando di Dio, di arte, di politica. "Lui sapeva che la mia cronica insonnia era una minaccia per i compagni che dormivano. E allora a notte fonda ci incontravamo nei corridoi dell'hotel per confrontarci su tutto. E le nostre chiacchiere duravano sino all'alba". Tardelli ha riscritto le regole del moderno centrocampista, resta il prototipo del giocatore ovunque, multitasking, implacabile persino in marcatura, con la giocata estemporanea sempre in canna, con la vocazione irresistibile a cogliere l'attimo. E in pochi, come lui, sono stati così ferocemente coerenti nel mordere la vita, la carriera, nel succhiare piacere, sostanza da qualunque esperienza, nell'inseguire l'affermazione come rivincita sociale. "A mia madre, scherzando, dicevo sempre: "Se a 25 anni non ho fatto i soldi col calcio divento un rapinatore". E lei replicava: "Se ti mettono in galera scordati che ti venga a trovare". Settant'anni spremuti sino all'ultima goccia, anche in ruoli molto diversi, coach, imprenditore, personaggio tv. Sempre alla Tardelli, senza mezze misure. Del resto "Tutto o niente” è il titolo della sua autobiografia scritta con la figlia Sara. Lettura preziosa per imparare l'arte complessa di non fare sconti a nessuno. Soprattutto a sé stessi.

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