Là dove osa(ro)no le Super Aquile

«This is for Nigeria, and Africa, and for the whole black race» – Viktor Ikpeba, oro Atlanta 96 «El título más valorado es el de las olimpiadas, porque es un torneo que se juega una vez en la vida» – Leo Messi, oro Pechino 2008 Aveva ragione l’orso Yogi. Yogi Berra: «It ain’t over ’til it’s over». Non è finita finché non è finita. E chi può saperlo meglio delle Super Eagles, novelle Fievel sbarcate due volte in America con la loro golden generation e volate altissimo, o precipitate, per altrettante doppiette: nel bene e nel male . Semifinale olimpica col Brasile, il 31 luglio al Sanford Stadium di Athens . E sudamericani favoriti anche perché sei giorni prima, il 25 luglio all’Orange Bowl di Miami, in Florida, avevano vinto 1-0 lo scontro diretto e con esso il Gruppo D, nell’ultima gara di un girone bello tosto: in tre a sei punti, con la sola Ungheria a zero e il Giappone uscito per differenza reti. Sotto 1-0 dopo 1’ su punizione rasoterra di Flávio Conceição ; e 3-1 dopo 38’ , la Nigeria accorcia con un’azione simil-rugbistica "alla mano" con Viktor Ikpeba a 12’ dalla fine. E pareggia al 90’ su rimessa laterale di Augustine "Jay Jay" Okocha, tiro-assist del subentrato Telsim Fatusi e Nwankwo Kanu che s’avvita nell’area piccola: spalle al portiere già per terra, col destro alza il pallone, piroetta di 180° e sempre col destro brucia Zé Maria, che sulla linea tocca ma non riesce a salvare. Oooveeertime. Al 4’ del primo supplementare, in campo aperto, decide ancora lui. Il "Peter Crouch" di Owerri e lingua igbo, per la sua inconfondibile versione della "robot dance" trademark dell’altrettanto dinoccolato ma allampanato perticone inglese. Giocatore africano dell’anno nel 1996 , all’Inter gli diagnosticarono una disfunzione cardiaca che poteva essergli fatale. Massimo Moratti, il patron del club, gli salverà vita e carriera pagandogli le spese per l’intervento di chirurgia specialistica a Cleveland, Ohio. Diciamo che nel caso di specie, ad Amsterdam, col calvinismo duro e puro s’erano spinti un po’ troppo in là. Torniamo ad Atlanta. Doppietta decisiva in un pacinesco pomeriggio di un giorno da Kanu : dalla trequarti lancio lungo che rimbalza sulla schiena di Fatusi, e altro suo assist involontario per il partner d’attacco: destro-sinistro-sinistro per mandare a vuoto Aldair e infilare in diagonale a mezza altezza Dida, che a inizio ripresa aveva pure parato il rigore di Okocha. Penalty fischiato dallo spagnolo José María García-Aranda per un falletto di Flávio Conceição su Daniel Amokachi. Golden goal , e Nigeria già nella Storia. Anche del calcio: mai una squadra del continente era arrivata a una finale di un grande torneo globale. E il bello, contro l’Argentina, doveva ancora arrivare. A casa, dunque, la Seleção del Ct Mário Jorge Lobo Zagallo, di capitan Bebeto, Juninho Paulista e tanti con un presente o un futuro prossimo in Serie A: Dida, Zé Maria, Zé Elias e… l’allora ancora “Ronaldinho”. Ma mica il Gaucho visto al tramonto col Milan; no, l’Altro: Luís Nazário de Lima, ma di due anni più piccolo e dunque troppo cucciolo per togliere l’apodo al carneade, ma sempre titolare, Ronaldo Guiaro. Difensore centrale dell’Atlético Mineiro poi di onesta carriera europea fra Benfica e Beşiktaş prima del ritorno in patria al Santos e la chiusura greca all’Aris Salonicco. Ma mai in campo con la nazionale maggiore. Per la prima volta nella storia dei Giochi olimpici, nel torneo di calcio sono ammessi tre giocatori professionisti "fuori quota", cioè oltre i 23 anni di età. Fanno eccezione la Francia e la Spagna, che rinunciano all’opzione. L’Italia del selezionatore Cesare Maldini e di capitan Fabio Cannavaro, qualificata come vincitrice dell’Europeo Under 21, invece convoca Gianluca Pagliuca , Massimo Crippa e Marco Branca , perlomeno sul tabellino l’unico a salvarsi in quella spedizione-flop. Due doppiette in tre partite per il centravanti, due sconfitte e solo il 2-1 sulla Corea del Sud per gli azzurri, eliminati come ultimi nel Gruppo C. Storicamente una potenza a livello giovanile, per quanto discussa prima dell’introduzione dei test ossei al polso resi obbligatori dalla Fifa proprio dopo lo scandalo nigeriano dell’89 , in quei Giochi la Nigeria si era qualificata ai quarti come seconda dietro il Brasile nel Gruppo D. La sua ammissione al torneo olimpico era però arrivata soltanto in extremis, dopo aver rischiato l’esclusione per avere rifiutato di partecipare alla Coppa d’Africa del 1996 in Sudafrica. Il clamoroso incidente diplomatico era scoppiato quando Nelson Mandela, presidente sudafricano dal 10 maggio 1994, aveva criticato il regime del dittatore nigeriano Sani Abacha. Nemici amatissimi In realtà la rivalità fra Nigeria e Sudafrica aveva radici lontane e ben profonde. Un incontro-scontro, il loro, ricco di storia, intessuta tanto di solidarietà politica quanto di tensioni ribollenti, e comunque di feroce competizione. In campo e fuori. Negli anni bui dell’apartheid, il sostegno nigeriano nei confronti dell’African National Congress era stato cruciale nella lotta per l’affrancamento della “Rainbow Nation” dal regime segregazionista. E non solo a parole: aiuti militari, risorse finanziarie, l’appoggio diplomatico nigeriani si erano rivelati decisivi nella lotta poi culminata con la riconciliazione del Paese post-elezione di Mandela, nel 1994, a primo presidente nero del Sudafrica. Ma la narrazione di questa reciproca fratellanza aveva poi preso tutt’altra piega quando lo stesso "Madiba", paladino dei diritti umani, condannò pubblicamente l’esecuzione governativa di nove attivisti nigeriani, da parte del regime militare dell’ex generale Abacha, divenuto poi Presidente, con un colpo di Stato, dal novembre 1993 al giugno 1998. Fra questi, presto ribattezzati "Ogoni Nine", lo scrittore e poeta Ken Saro-Wiva. Portavoce sin dagli anni Ottanta delle rivendicazioni civili delle popolazioni del Delta del Niger – e in particolare della sua etnia, maggioritaria nella regione –, Saro-Wiva nel 1990 era stato promotore del Movement for the Survival of the Ogoni People . Un movimento di protesta non violento in contrapposizione alle autorità statali e al governo federale, ritenute conniventi con le multinazionali del petrolio le cui continue perdite di greggio danneggiavano e inquinavano le colture oltre che l’intero ecosistema del territorio. La regione del Delta ha una più che giustificata pessima reputazione di posto fra i più pericolosi al mondo. Nella regione l’ "oro nero" è stato scoperto circa 65 anni fa, ma più che una manna dal sottosuolo si è rivelato una maledizione. Fiumi e affluenti inquinati dall’estrazione e la trivellazione selvaggia hanno compromesso pesca e agricoltura. Per non parlare dell’esplosione di corruzione e criminalità in un Paese che, con i suoi 230 milioni di abitanti, è il più popoloso del continente e malato cronico di gigantismo. Gang armate, rapimenti con scopo di riscatto , violenza diffusa sono diventati la tragica quotidianità. E gruppi paramilitari come il Movement for the Emancipation of the Niger Delta e il Niger Delta People’s Volunteer Force , composto in prevalenza da membri Ijaw, la maggiore etnia della regione e per il 90% di religione cristiana, hanno cavalcato per un decennio la rabbia della popolazione locale contro l’industria petrolifera tout court. Ma tornando alla rottura fra Mandela e Abacha, quell’inconciliabile conflitto sui diritti umani innescò, fra i rispettivi Paesi, una frizione, per non dire inimicizia, che trascendeva la politica stessa, e si è riversata nel calcio. A farla breve, i rapporti fra Nigeria e Sudafrica non sarebbero stati più gli stessi. Un’immediata riprova la si ebbe già per la Coppa d’Africa del 1996, ospitata dal 13 gennaio al 3 febbraio nel Sudafrica finalmente libero e alle prime elezioni democratiche del 1994, e subentrato nel novembre di quell’anno al Kenya. La Nigeria, campione due anni addietro , era la favorita per ripetersi. Ma con una contromossa che spiazzò l’intera comunità internazionale, prima ancora che il piccolo mondo antico del pallone, Abacha – adducendo fantomatici problemi di sicurezza nel territorio sudafricano – boicottò il torneo, cui la Nigeria, bandita dall’edizione in Burkina Faso del 1998, non tornerà prima del 2000. Ça vans dire, persino i bambini interpretarono quella rinuncia del ’96 come una ritorsione del regime contro le critiche di Mandela. Come non bastasse, complice proprio l’assenza della Nigeria, a vincere la CAN del 1996 erano poi stati i Bafana Bafana , tuttora il loro unico successo nella competizione. Ecco perché le Super Aquile della golden generation sbarcate in America due volte in quel biennio, per il mondiale prima e per i Giochi Olimpici poi, avevano dentro un qualcosa di speciale. E tanto da dimostrare. A se stesse e al mondo intero. "Un calcio pittoresco" In linea col sempre complicato non-rapporto fra gli States e questo sport a loro così estraneo, il Los Angeles Times definì «colorful soccer», pittoresco, il calcio della Nigeria, che nella finale olimpica di Atlanta 1996 stava per affrontare l’Argentina. Il sottinteso retorico, tutto losangeleno e molto iu-es-ei, era del tipo: cosa mai ci troveranno quegli 80 mila previsti al Sanford Stadium di Athens, in Georgia. Un impianto per… il football. Il loro, però. Quello americano. Come col Brasile in semifinale , la Nigeria va subito sotto, poi rimonta con sorpasso nel finale. Dopo 3’ segna Claudio Javier López, "el Piojo" visto poi al Valencia della "Cúperativa" pure finalista di Champions League e nella munifica Lazio cragnottiana. Celestine Babayaro, terzino sinistro allora all’Anderlecht e fratello del secondo portiere Emmanuel, pareggia di testa al 28’, quasi piegandosi in volo sul corner mal valutato in uscita dal portiere argentino Pablo Cavallero. Ma la Selección torna avanti al 50’, su rigore di Hernán Jorge Crespo, che proprio quell’estate – per otto miliardi di lire – lascerà il River Plate per il Parma. E da co-capocannoniere della manifestazione , con altrettante doppiette, sia ai quarti nel 4-0 sulla Spagna campione uscente, sia nel 2-0 al Portogallo in semifinale. In tempi pre-var, Pierluigi Collina infila una delle rarissime topiche della carriera: su lancio di López sulla destra, punisce col rigore il "reverendo" Taribo West per una trattenuta su Ariel Arnaldo Ortega, all’epoca l’idolo del piccolo Leo Messi e oggi uno degli assistenti nello staff del Ct Lionel Scaloni in nazionale. West in realtà aveva sì provato a prenderlo per la manica sinistra, ma per quel tuffo Ortega l’argento lo avrebbe meritato sul podio del Georgia Tech Aquatic Centre, la piscina di casa delle Yellow Jackets e impianto di gare per quei Giochi. I verdi però non si scompongono granché. Stavolta, di gol negli ultimi 16’, tra il 74’ e il 90’, gliene bastano due. E li firmano Daniel Amokachi ed Emmanuel Amunike, entrato al 72’ per Victor Ikpeba. Due minuti dopo, su rimessa laterale di Babayaro, Kanu in area spizza per Wilson Oruma, che davanti a Cavallero svirgola, ma c’è pronto Amokachi che infila il pallonetto del 2-2. Bravo e fortunato invece Amunike, in tempi di VAR ancora lontani, a sfruttare, indisturbato, il maldestro tentativo di offside argentino, per di più su punizione di Oruma e con Sensini che non "sale" in tempo, e quando tutto faceva ormai pensare a un nuovo Oooveeertime. Ingenuità imperdonabile per la Albi del Ct Daniel Alberto Passarella, puntinata di stelle: non solo "Valdanito" Crespo e il "Burrito" Ortega , ma pure tanti altri "italiani" presenti o venturi come Roberto Fabián Ayala, José Antonio Chamot, Javier Adelmar Zanetti, Matías Jesús Almeyda, Sensini, più Diego Pablo Simeone entrato al 52’ per Hugo Alberto Morales. È solo che aveva ragione l’orso Yogi: non è finita finché non è finita. I neocampioni olimpici – risultato storico: prima squadra africana a riuscirci, poi emulata dal Camerun a Sydney 2000 – avevano molto in comune con lo squadrone poi al via di USA ’94. In spogliatoio però non è che filasse tutto liscio o scorresse chissà quale philadelphiano amore fraterno. Anzi. Specie fra il gruppo e la guida tecnica, un duo tutto olandese: Clemens Westerhof, ispidino assai per non dire abrasivo, aveva allenato la nazionale al mondiale americano, e il suo ex assistente Johannes Bonfrère quella ai Giochi di Atlanta due anni dopo. Westerhof, solo omonimo del connazionale Hans, nel 1996-97 Ct dell’Olanda Under 21, aveva inserito giovani promettenti come Oliseh e Okocha, del quale riconosceva sì gli eccessi in personalismi, ma pure l’innato talento e la personalità attorno a cui costruire il decennio a venire. Alle ali poteva contare sulla velocità di Amunike a sinistra e l’intelligenza tattica di Finidi George a destra. E là davanti, sul gran lavoro di Amokachi e la straripante potenza di Rashidi Yekini, "il Toro di Kaduna". Iconica, in tal senso, la sua esultanza – un urlo belluino a pugni giunti dentro la rete di porta – per aver aperto il 3-0 alla Bulgaria del 21 giugno 1994 a Dallas. Una delle immagini-simbolo di quel mondiale. «Yekini è il più grande centravanti nigeriano con cui io abbia giocato – racconta Oliseh in Feet of the Chameleon: The Story of African Football di Ian Hawkey – Aveva un tiro incredibile. Voleva sempre il pallone ed era sempre facile trovarlo smarcato. Non dovevi fare altro che servirlo tra le linee, poi ci pensava lui. Tirava e basta. E di solito erano conclusioni di alta qualità». A proposito, con "zampe del camaleonte" – neologismo coniato da Zama Masondo, telecronista sudafricano di lingua Zulu – si intende, proprio per la lentezza con cui l’animale le muove nel mimetizzarsi, la nostra cara, vecchia fu moviola. Anche questa è l’Africa, bellezza. Il problema, in quella squadra, è che ai giocatori importava virgola di Westerhof, e a Westerhof quasi zero del suo vice Bonfrère. Tuttavia, i due, da buoni olandesi, non difettavano di calvinismo spinto, e la ragion di Stato – leggi pecunia – andava sempre messa al primo posto. «La mentalità olandese è molto affine a quella nigeriana – spiega Oliseh –, nel senso che a calcio bisogna giocare bene, il gioco deve essere bello. Ci devono essere dei gol, belle azioni e tutto il resto. Westerhof è arrivato e ha subito incoraggiato i giocatori ad andare a giocare all’estero, sin da giovani. E così tutti abbiamo cominciato a guardare all’Europa». Non solo perché pagava infinitamente meglio, ma anche perché avrebbe insegnato loro a vivere, prima ancora che comportarsi, da professionisti. Due episodi, uno per faccia della medaglia e risalenti all’avvicinamento al mondiale americano, chiariscono il concetto. Westerhof ricorda di aver «ripescato qualche suo giocatore dal retro degli hotel», un po’ troppo dedito a godersi la legislazione così liberal vigente nei Paesi Bassi. E lo stesso Westerhof sa quanto potesse essere meritata la fama di atavica disorganizzazione che accompagna varie federazioni africane. Invitato a New York dalla Fifa per la conferenza pre-torneo come gli altri 23 Ct delle nazionali qualificate, aveva scoperto solo una volta atterrato che l’evento, seminario compreso, era già finito. Il giorno prima. Usa ’94: Baggio, l’incubo americano Prenotazioni di voli a parte, la Nigeria che si presenta al mondiale di Usa ’94 è la più forte di sempre. In attacco schiera un tridente tecnico, potente e veloce in Daniel Amokachi, Rashidi Yekini ed Emmanuel Amunike, nel mezzo qualità, quantità e passo con Sunday Oliseh e Finidi George, arretrato e accentrato rispetto alle origini di ala. Sono in diversi, e non solo in patria a ritenere che se la Nigeria non avesse buttato via la qualificazione contro l’Italia, si sarebbe trovata spianata la strada per la finale, se non addirittura per titolo. Anche se il Brasile, per quanto dimesso come quello, era per sempre il Brasile. E scusate per la tautologia. Ma a prescindere da com’era finito, quel mondiale dimostra anche quanto e come abbia poi influenzato il resto della società nigeriana. Come racconta Steve Bloomfield nel capitolo dedicato alle Super Eagles nel suo Africa United: How Football Explains Africa, l’anno prima il Paese aveva sofferto la più grave crisi in tre decenni d’indipendenza . Nel 1993 il regime militare di Ibrahim Babangida si stava preparando per indire le lezioni e rimettere il potere al popolo. Quelle elezioni sono ritenute le meno irregolari nella travagliata storia della nazione, con una incidenza minima di brogli e violenze rispetto le precedenti. Ma quando apparve chiaro che il leader dell’opposizione Chief Moshood Abiola stava per vincere, Babangida le annullò. Scusate, abbiamo scherzato. L’anno successivo, per il 12 giugno erano previste manifestazioni di protesta proprio nel giorno delle elezioni. Gli attivisti pro-democrazia erano pronti allo sciopero nazionale, e ci si aspettava che in milioni scendessero in strada e nelle piazze. C’era solo quel piccolo problemino chiamato Mondiali, che stavano per cominciare. E così lo sciopero fu rimandato. Al giorno dopo la sconfitta contro l’Italia. Sempre che crediate alle coincidenze. Limitandoci al campo, fin lì il debutto mondiale della Nigeria era stato quasi perfetto. Demolita 3-0 la Bulgaria , nella seconda giornata del Gruppo D era caduta al Foxboro Stadium contro, e chi se no, l’Argentina. Stavolta però passando in vantaggio per prima: all’8’ con Samson Siasia su assist di Yekini. Il sorpasso blanquiceleste con doppietta di Claudio Paul Caniggia servito, per il secondo, da Diego Armando Maradona, poi tirato giù dall’olimpo per lo scandalo efedrina. Senza più "el Diez" a illuminarla, la Selección si spense di colpo: 0-2 contro la Bulgaria per chiudere il girone, e poi subito fuori contro la Romania negli ottavi. Le Super Aquile invece, battuta 2-0 la Grecia con gol di Finidi George e ancora Amokachi, sembravano destinate a volare ancora più alto, a vette alla partenza impensabili. Prima per differenza-reti davanti a Bulgaria e Argentina nell’equilibratissimo Gruppo D , negli ottavi la Nigeria avrebbe incrociato l’Italia, ripescata come terza del Gruppo A dopo la inopinata sconfitta 0-1 con l’Irlanda, il soffertissimo 1-0 in dieci sulla Norvegia e il pareggino col Messico. C’erano tutti i presupposti, dunque, per pensare che il Sogno americanigeriano non si sarebbe spezzato, o almeno non così presto. Anche perché si sarebbe giocato nella fornace di Boston, il 5 luglio, alle 13 locali. E infatti, come contro l’Argentina, le cose si erano presto messe bene: al 25’, su corner di Finidi George e incertezza difensiva degli azzurri, 1-0 del "solito" Amunike. E dal 75’ azzurri in dieci per l’assurda espulsione di Gianfranco Zola da parte del messicano Arturo Brizio Carter. Da noi magari si preferisce obliare che, se c’era un azzurro che meritava il rosso, quello era Paolo Maldini per aver abbattuto Yekini. Ma poi Baggio, Roby, quello del «questo è pazzo» in mondovisione al Ct che contro la Norvegia lo aveva tolto per Luca Marchegiani dopo l’espulsione di Gianluca Pagliuca, aveva tirato giù lui – e per due volte – all’88’ e su rigore al 102’ – Sacchi & C. dalla scaletta dell’aereo di ritorno in Italia. E schivato così gli annessi pomodori di "messicana" memoria, peraltro solo rimandati, per un altro storico secondo posto mondiale degli azzurri e sempre contro i brasiliani. A proposito di voli di rientro. Quello di Westerhof non sarebbe stato quello con il gruppo, già spaccato e ben prima dell’eliminazione. Poi assai criticato per i cambi degli infortunati Amokachi e Amunike, rimpiazzati con giocatori prettamente difensivi che avevano tenuto troppo arretrato il baricentro della squadra sotto la pressione italiana, Westerhof sapeva che il suo destino era segnato. Amokachi aveva contestato il cambio, ma il primo a scaricare il Ct era stato Yekini: «Questo allenatore non mi è mai piaciuto. Questa sconfitta dovrà essere di lezione anche per il resto dell’Africa quando si tratta di scegliere i selezionatori». Chiaro il riferimento ad atavici pregiudizi secondo i quali, sulle panchine di tante nazionali del continente "nero", ci fossero sempre bianchi, meglio se nordeuropei. E in questo senso, da Dutchgerian ormai del tutto assimilati, sia Westerhof, sia il suo vice Bonfrère, ne erano la perfetta rappresentazione. Dopo la partita, il Ct girava nello spogliatoio a stringere la mano a ciascun giocatore. Non per complimentarsi ma per accomiatarsi: «Signori, domani ci saranno un volo per Schipol . Al 58’, da metà campo manda in porta il sodale Ángel Di María. Un evergreen, dunque senza tempo. E rivisitazione moderna, ma chiusa da un pallonetto di sinistro sul palo lontano, del lancio del Diez originale per il compare prediletto Jorge "Burru" Burruchaga nel 3-2 del titolo di Messico ’86 contro la Germania Ovest. E non è un caso che proprio Diego, al triplice fischio, sia stato tra i primi a correre ad abbracciare il suo più degno erede . È il primo successo della premiata ditta Leo & "Fide" con la Selección, seppure di categoria, che però centra un sentitissimo triplice traguardo: bissa l’oro di Atene 2004; si prende la rivincita per quello perso ad Atlanta proprio contro la Nigeria; e – por último, si bien no menos importante – brucia il Brasile, sin lì mai presente in cima al podio a cinque cerchi prima del back-to-back fra Rio 2016 e Tokyo 2021 . Nota a margine: partita giocata alle 12 locali e pietra miliare per l’introduzione del cooling break da calura. Bravi l’arbitro ungherese Viktor Kassai e gli staff medici a inventarsi, in accordo con la FIFA, una sorta di protocollo d’emergenza: al 31’ del primo tempo e al 25’ del secondo, gioco interrotto per permettere ai giocatori di rinfrescarsi e idratarsi. Mai si era assistito a due time-out, ma si era al punto di non ritorno. Quanto al gioco, identico copione replicato con successo, sempre con il Fideo protagonista ma con sceneggiatura di Rodrigo De Paul, in finale di Copa América 2021. Il primo trofeo con la Albi maggiore dei due amici per sempre Leo e Ángel, e che darà alla Scaloneta lo slancio per vincere, a Qatar 2022, l’agognato mondiale. Ancor più da libro Cuore l’epilogo della lunga storia di odiamore tra Di María e la Selección, sempre con Leo nei panni del Venerabile Maestro. Nell’arringa in spogliatoio pre-semifinale della Copa América 2024 contro il miglior Canada di sempre, da bravo capitano Messi aveva chiesto ai compagni di arrivare a «jugar otra final por Fideo». Manifest destiny, proprio contro il Canada – 5-0 al Monumental il 24 maggio 2010 – Ángel aveva segnato al debutto in nazionale. Desiderio esaudito. Con tanto di Copa alzata contro la Colombia come ideale chiusura di un cerchio rosarino. Ma tutto era cominciato là, con la Venganza Olímpica di Pechino 2008. Contro la Nigeria. Non è mai finita finché non è finita.

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