Il nemico alle porte: quando il tuo rivale è a due passi da casa

Premessa. In Italia, sotto altre forme e in altri modi ci siamo abituati. I tifosi del Genoa e della Samp, della Roma e della Lazio, dell’Inter e del Milan potrebbero ricordarcelo all’istante. Abituati da sempre a salire i gradini nel giorno del derby per ritrovarsi loro, i rivali di sempre, stagliati all’orizzonte in un impatto visivo di benvenuto che, pur ripetendosi stagione dopo stagione, tocca sempre con nuova maliziosa delicatezza le corde di ogni tifoso. Qualcuno non baratterebbe quel momento con nient’altro. Qualcun altro sarebbe addirittura pronto a confessare di provare una sadica ammirazione verso il boato che arriva dall’altra parte quando il derby si inclina nella direzione sbagliata. Un intelligente e machiavellico adattamento alla degradante politica degli stadi in Italia, più volte abbozzata qui e lì più per ricavare qualche consenso che per incoraggiare i club ad imboccare la strada degli impianti di proprietà. Chi invece ha questo indiscusso privilegio, lo ritiene sacro. Lo stadio è luogo di ritrovo, di aggregazione, di condivisione. Famiglie, amici, grandi, piccoli. Il suono caldo della cipolla sulla piastra, il click del tornello che scorre, le strette di mano e gli abbracci di sempre. Lo stadio è identità. Appartiene al club e alla sua gente. È espressione della comunità locale. E se questa fosse divisa? Partiamo da Liverpool. Nella sua costituzione non scritta, Liverpool si dichiara città-stato all’interno di un regno. Qui prima si è Scouser e poi Rossi o Blu. Gli Scouser rivendicano con orgoglio le loro origini irlandesi. Hanno sentito sulla pelle il dolore dei Troubles, hanno simpatizzato per il fronte repubblicano. Se ci pensate bene, è molto raro che la nazionale inglese giochi ad Anfield o a Goodison Park . Questa forte identità cittadina non può che convertirsi in una contaminazione reciproca tra rosso e blu. È raro, se non impossibile, trovare famiglie ‘pure’. Da qui la definizione di ‘Friendly Derby’ da non interpretare erroneamente come sentimento di simpatia verso l’altro. I club non si amano e in campo lo confermano considerato che Liverpool-Everton è la partita della storia della Premier League ad aver prodotto il maggior numero di cartellini rossi . Friendly deriva dalla divisione calcistica che si crea nelle famiglie o che porta con più semplicità un ragazzo a giocare per la squadra che non tifava da bambino. Michael Owen e Jamie Carragher, due icone del Liverpool Football Club, nascono e crescono come Evertonians. Owen per seguire le orme del padre. Carra per nutrire il sangue nelle vene, indistintamente blu. Nella sua autobiografia, Ring of Fire, Owen specifica: “Quando sono entrato nel Liverpool, pensavo di essere un tifoso dei Blues. Poi ho visto Carra. Quando battevamo l’Everton, stava male. Intendo male fisicamente”. Friendly è un termine che ha assunto un valore assoluto dopo la strage di Hillsborough del 15 aprile 1989, in cui morirono 96 tifosi del Liverpool, diventati recentemente 97 con la scomparsa di un tifoso che aveva subito danni permanenti in quel pomeriggio di Sheffield. Ancora oggi l’Everton ricorda con stile e rispetto la perdita di quelle anime rivali, ma tutti parenti della metà blu cittadina. Manifesto di questa unione è il divieto a tempo indeterminato imposto al quotidiano “The Sun” di accreditarsi alle partite sia del Liverpool che dell’Everton. Il tabloid trattò la strage di Hillsborough additando i tifosi come principali responsabili, offrendo una versione dei fatti ribaltata giuridicamente solamente il 26 aprile 2014. In tutta la città, nei bar e perfino sui taxi troverete adesivi con la scritta “Eclipse the Sun”, “Eclissate il Sun” e “Don’t buy the Sun”, “Non comprate il Sun”. Questo rapporto di rivalità codificato entro perimetri famigliari non può che convertirsi in un’affascinante vicinanza geografica tra i due stadi. Anfield e Goodison Park distano 983 metri e sono divisi dal verdissimo Stanley Park, polmone di una delle aree con un tasso di criminalità tra i più alti di tutto il Regno Unito. Tristemente, questa sarà l’ultima stagione in cui il nemico sarà alle porte. Mentre il Liverpool negli anni ha adeguato Anfield con ristrutturazioni più o meno invasive e deformanti, l’Everton ha costruito il suo nuovo e modernissimo stadio sulle rive del fiume Mersey, nella zona dei Docks. Fine della magia. Intoccabile è invece la vicinanza tra City Ground e Meadow Lane, rispettivamente stadi del Nottingham Forest e del Notts County. Qui è un fiume e non un parco a delimitare il confine. 270 metri bastano per rendere questa rivalità la più vicina d’Inghilterra . Il problema sostanziale è che mentre gli stadi sono prossimi l’un l’altro, la distanza calcistica tra Forest e County non è mai stata così siderale. Il Forest, dopo decenni di grigiore, è tornato a splendere in Premier League mantenendo il fascino della sua storia leggendaria. A partire dalla Brian Clough Stand e dallo striscione della Trent End che richiama il fortissimo legame con le camicie rosse garibaldine da cui il Forest ha tratto il colore della maglia. Il Notts County vanta il titolo di club professionistico più antico d’Inghilterra , ma oggi deve navigare nel mare mosso della League Two . Sono tornate vicine, spalla e spalla, Dundee United e Dundee FC. La promozione dello United ha riacceso la rivalità al punto da convincere la SPFL a prevedere il primo dei quattro derby stagionali alla prima giornata. 848 giorni dopo, il mondo ha dunque ritrovato il derby geografico più affascinante al mondo. Tannadice e Dens Park distano solo 183 metri e sono i più vicini al mondo. Facile confondersi dunque, ma non per i local che conoscono a memoria i loro passi domenicali per non trovarsi nel vicolo sbagliato. Uscendo dai confini anglosassoni, è impossibile non fare un salto a Belgrado. Qui il termine friendly è ça va sans dire bandito da ogni vocabolario. Lo stadio Partizan dista 800 metri dal Rajko Mitic, celebre anche col nome di Marakana a rendere ancora più infinito il concetto di “Derby eterno”, come viene riconosciuto dalla gente del posto. Una vicinanza intrigante ma non percorribile nel giorno della partita. Il settore ospiti, per ovvi motivi, non è previsto. Un discorso simile è applicabile al mondo sudamericano e in particolar modo al derby di Avellaneda, Buenos Aires. Gli stadi di Independiente e Racing distano 300 metri. Nella produzione originale Sky Sport “El Toro de Casa Blanca” dedicato a Lautaro Martinez, Gianluigi Bagnulo ripercorre con Diego Milito le sfumature di uno dei derby più sentiti al mondo. Nello specifico, diventa elettrizzante il punto di vista di Casa Tita, la pensione del settore giovanile del Racing. Uscendo da lì, ci si trova in un precario e angosciante equilibrio tra il bene e il male. A sinistra il Cilindro, casa del Racing. A destra il Libertadores de America, fortino dell’Independiente. A voi giudicare da che parte stare. A unire i punti di questo racconto in cui le storie di famiglia si intrecciano con le rivalità cittadine, Diego Milito rivela a Gianluigi Bagnulo la difficoltà di rappresentare la metà opposta al fratello Gabriel, icona dell’Independiente. I due in un Clasico di Avellaneda arrivarono addirittura alle mani a testimonianza di quanto il senso di appartenenza a un club, in Argentina, possa essere ancora più viscerale di un legame famigliare. Che resta il punto centrale di ogni grande rivalità del football o futbol, a seconda dei vostri gusti. Con la profonda consapevolezza che a rendere le rivalità divine sia necessario che il nemico sia alle porte, o addirittura, ancor più bizzarramente, semplicemente nella stanza accanto.

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