A testa alta e petto in fuori: l'ultima notte di Gaetano Scirea

Torino. 3 Settembre 1989. La Juventus è appena tornata da una trasferta veronese di campionato. Successo largo, 4-1, con doppietta di Schillaci. I giocatori scendono dal pullman, a precederli è il loro allenatore, Dino Zoff. Qualcuno gli si avvicina, gli sussurra qualcosa all'orecchio. E d'improvviso le tenebre tutto inghiottono, smascherando l'inganno di quella notte quieta. Dino non dice nulla, a parlare è il volto, pietrificato. Ha una sola reazione, non da Zoff. Sferra un calcio violento alla fiancata del bus. Poche ore prima, in un assurdo incidente, aveva perso la vita Gaetano Scirea, il suo vice, l'ex compagno di mille conquiste, soprattutto il suo migliore amico. Un fuoriclasse diverso, come diversa era la sua natura. Perché Scirea già da tempo era diventato Scirea, campione del mondo, simbolo, icona, eccellenza italiana. Eppure la modestia, il senso del dovere, l'avevano spinto laggiù, a visionare il Gornik, avversario in Coppa della Juve. E a morire, nel suo ruolo di osservatore, su una sperduta strada polacca. Sacrificio estremo, che unirà in eterno tutte le generazioni bianconere, e non solo quelle. Il giorno dopo Dino pronuncerà una sola frase, sofferta, definitiva: "È morto un uomo, e quando si dice un uomo si dice tutto". Sono passati 35 anni e siamo fermi lì, allo sgomento davanti a un destino infame, alla potenza di quelle parole, alla disperazione trattenuta di chi, come Zoff, con Gaetano condivideva tutto, memorie meravigliose, la leggerezza dell'anima, l'etica del lavoro, il naturale rigore, il tempo libero con le famiglie. È passata una vita ma i ricordi, indelebili, è lì che ci inchiodano, al dolore composto della moglie Mariella, che nei giorni del cordoglio, dell'afflizione condivisa, ricevette centinaia di lettere da tifosi di tutta Italia, a conferma dell'affetto trasversale per Gaetano. E una di quelle carezze era firmata da un pastore sardo, che non seguiva il calcio e che Scirea l'aveva incrociato solo per un attimo, di sfuggita, nella tv del bar del paese. "È come se fosse morto mio figlio - la sua commozione - l'ho capito davanti agli occhi buoni di suo marito" . Ecco, il miracolo, tra i tanti, di Scirea. Nella memoria collettiva viene prima l'uomo del calciatore, come se la sua indole di hombre vertical, la signorilità, la gentilezza, avessero finito per offuscarne la cerebrale interpretazione della missione di libero, il senso tattico, il tempismo, la logica creativa, quella straordinaria attitudine a migrare di ruolo in ruolo, apparendo, dissolvendosi, come un fantasma. "Gaetano aveva tutto - garantiva Gianni Agnelli - meno la capacità di picchiare, piuttosto lasciava scappare l'avversario". Ciò che gli accadeva nel quotidiano, non solo sull'erba, dove era diventato il nuovo Beckenbauer. Anche nella vita mai un cartellino sventolato sotto il naso, e poi identica leggerezza di pensiero, di movimenti, quando difendeva, quando usciva dal suo territorio, senza alcun respiro di brutalità. Ufficiale e gentiluomo. "Era il più forte di tutti - ha detto Marco Tardelli - ma era troppo umile per dirlo, anche solo per pensarlo. Era soprattutto una creatura speciale, che faceva parlare i suoi silenzi". Sono trascorsi decenni, ma Gaetano Scirea, nel ricordo di tutti, resta quel campione timido, con un neo sulla guancia, che elevò ad arte, la sua dolce, poetica essenzialità. E che nel caos del calcio contemporaneo, nel "frastuono di cose vecchie col vestito nuovo", come canta Guccini, sta sempre lì, ben saldo sulle nuvole, a spiegarci che un altro mondo è possibile. Basta uscire dall'area, dalle avversità, dalle malinconie, a testa alta e petto in fuori. Armando il coraggio con i pudori, blindando l'anima con la riservatezza. Alla Scirea, appunto.