7 ottobre: a un anno dall'attacco di Hamas, il ruolo del calcio nella guerra

Cent’anni di tensioni periodicamente sfociate in conflitti aperti, un’impressionante stratificazione di odio e morte con conseguente radicalizzazione culturale e progressiva avversione per la controparte, vissuta come minaccia costante e male assoluto. La questione israelo-palestinese è un perenne detonatore di tragedie che lo sport non può e non riesce a contenere o limitare. Perché lo sport, malgrado le dichiarazioni valoriali che nel tempo ne hanno nobilitato l’essenza, è un fatto eminentemente politico. Lo è nelle origini, perché la sua prima testimonianza occidentale è addirittura omerica e riguarda i ‘giochi’ indetti da Achille in onore di Patroclo dopo la sua morte in battaglia. Discipline? Corsa con i carri , pugilato, lotta, corsa a piedi, duello con la lancia, lancio del disco, tiro con l’arco, lancio del giavellotto. Ovvero tutte attività strettamente connesse all’arte della guerra. Lo è nel suo utilizzo, basti pensare alla sua funzione propagandistica nei regimi che hanno abitato la storia . Lo è nelle sue conseguenze, visto il significato sociale che certe vittorie hanno assunto nei delicati momenti di tensione interna ai singoli Stati. Lo è nei suoi riflessi, perché chi pratica sport non è scevro da influssi culturali che fatalmente lo collocano su uno specifico versante della storia. Lo è nel suo gergo comunicativo, del tutto mutuato dal linguaggio guerresco. Lo sport, insomma, è guerra formalizzata. Non mette immediatamente in palio la vita dei suoi attori, ma ne evoca meccanismi e conseguenze, tra le quali l’emersione del tifo, plastica materializzazione della regola politica dell’amicus/hostis. Cioè di quel processo psicologico teorizzato da Machiavelli e divenuto ‘regolarità’ scientifica, secondo cui il ‘nemico’ esterno ricompatta naturalmente la propria parte. Funziona per gli Stati, funziona per il tifo . E allora non stupisce che la tragedia del 7 ottobre 2023, ovvero l’orribile attacco di Hamas che ha prodotto più di mille vittime e la cattura di centinaia di ostaggi israeliani, nonché la successiva durissima ritorsione di Israele a Gaza, in Cisgiordania e Libano, abbia istintivamente prodotto reazioni anche tra i singoli attori del mondo calcistico. L’ultimo in ordine di tempo è stato Ole Saeter, attaccante del Rosenborg, che ha rifiutato un’allettante offerta economica del Maccabi Haifa con parole al vetriolo: “Non rappresenterò un Paese che mette fine a vite innocenti. Nessuna somma di denaro può comprare i miei valori. Anche se mi offrissero 500 milioni, non li accetterei. Non voglio soldi macchiati di sangue sul mio conto in banca. Sarebbe un incubo. È un Paese che non ha né la moralità né i valori a cui ispirarmi per rappresentarlo”. Una presa di posizione che, per la verità, rappresenta un elemento di novità rispetto ad analoghe sortite di suoi colleghi nei mesi precedenti: perché per la prima volta un calciatore di cultura occidentale ha criticato apertamente uno Stato storicamente appoggiato e integrato al suo mondo. Vero, pur essendo norvegese Soeter ha il nonno materno pakistano, dunque di religione islamica e probabilmente sensibile alla questione in chiave pro Palestina. Ma è anche vero che il Pakistan è a maggioranza sunnita, fazione da sempre avversaria di quella sciita e dunque mai allineata all’Iran, Paese finanziatore di Hamas e Hezbollah e ritenuto da tutti gli analisti capofila della strategia anti israeliana in medio oriente. In più Saeter ha certamente un carattere piuttosto originale e anticonformista: alla domanda su come avrebbe festeggiato un suo gol vittoria in un’intervista a caldo, in diretta e a bordo campo, scelse una risposta provocatoria raccontando di come avrebbe messo il telefonino in una mano e il suo pene nell’altra. “Sarà una lunga notte”, la sua chiosa. E in un’altra occasione, subita un’espulsione, uscì dal campo non per raggiungere gli spogliatoi, ma la curva, in modo da poter tifare insieme agli ultrà. Ma al netto di questi singolari aspetti della sua personalità, Saeter si è messo in opposizione all’attuale governo israeliano, nell’alveo delle proteste di piazza che nello stesso Stato ebraico hanno manifestato avversione rispetto alla politica intransigente e aggressiva di Netanyahu. Del resto, il mondo occidentale è la dimensione della democrazia, dove la voce critica e di opposizione ha ancora cittadinanza. Almeno in teoria. Perché a ben guardare proprio il nervo scoperto della questione mediorientale, qualche perplessità la pone. Cominciamo dalla Francia. Il 15 ottobre Karim Benzema, indimenticabile icona dei bleus, postò un tweet in cui rivolgeva “tutte le nostre preghiere per gli abitanti di Gaza, ancora una volta vittime di questi ingiusti bombardamenti che non risparmiano né donne né bambini”. Posizione simile a quella di Saeter, espressa per altro con parole molto più dolci, visto che l’unica possibile lettura accusatoria risiedeva nell’aggettivo ‘ingiusti’. Eppure, contro di lui si scagliarono in tanti. E non per opporre un altro punto di vista o per introdurre un dibattito sulla vicenda. La deputata repubblicana Valérie Boyer chiese che gli fosse tolto il passaporto e revocato il Pallone d’Oro, il ministro degli interni Gerald Darmanin lo accusò di avere legami con la Fratellanza Musulmana, molti altri sottolinearono come Benzema non cantasse la Marsigliese in Nazionale. Senza contare la scomposta reazione di Aouate, ex portiere israeliano con una lunga carriera in Spagna, che dedicò a Benzema un post sintetico e drastico: “figlio di p…” scritto in cinque lingue diverse. Per fortuna l’attaccante di origini algerine, oggi in forza all’Al-Ittihad, ha ancora il suo passaporto e tutti i suoi premi in bacheca, ma il livello della polemica testimonia la mitosi ideologica di un mondo che invece dovrebbe unirsi per trovare soluzioni il più possibile condivise. Più borderline e dunque più censurabile l’atteggiamento di Atal Youcef, difensore algerino del Nizza, che nell’immediatezza dell’attacco terroristico ritwittò un passaggio di un predicatore che chiedeva a Dio di “mandare un giorno nero sugli ebrei”: la Federazione francese lo squalificò prima per 7 giornate, poi sine die. Mentre il tribunale di Nizza lo condannò a 8 mesi di carcere per istigazione all’odio. Pena sospesa e giocatore finito prima in Turchia e oggi in Qatar. Incitamento all’odio è un reato in Francia, così come in Spagna. E tuttavia la sorte di Shon Weissman ha avuto un esito differente. L’attaccante israeliano del Granada si rese protagonista di messaggi social decisamente ‘forti’: “Distruggere. Stringere. Schiacciare. Alla vendetta di Dio. Qual è la ragione logica per cui 200 tonnellate di bombe non sono già state lanciate su Gaza?”. E ancora: “Perché Ezael non gli spara in testa?!?”, a corredo di un’immagine in cui un soldato israeliano punta il fucile verso due presunti terroristi palestinesi nudi. Senza contare i like a messaggi come “Tutta Gaza sostiene il terrorismo. Tutta Gaza è morta”. Venne fermato per una sola partita, ma per ragioni di ordine pubblico, visto che a Pamplona dove si sarebbe giocata Osasuna-Granada era in atto una mobilitazione contro di lui da parte di tifosi e associazioni filopalestinesi. Cancellò tutto, sostenendo che l’autore di quei messaggi fosse il suo social media manager, e poi emigrò in Italia, alla Salernitana. Oggi è ancora un giocatore del Granada. Chissà cosa sarebbe accaduto se Weissman avesse giocato in Turchia, come il suo connazionale Sagiv Yehezkel. Sagiv, attaccante israeliano dell’Antalyaspor, segnò un gol pesante contro il Trabzonspor, corse verso la telecamera e mostrò una fasciatura al polso, su cui era impressa la scritta “100 giorni, 7 ottobre” con accanto una stella di David. Nessun attacco alla Palestina, nessun rancoroso messaggio per Hamas, semplicemente la velleità di sensibilizzare il mondo sulla sorte degli ostaggi israeliani, da 100 giorni nelle mani dei rapitori in condizioni opprimenti. Una linea ben diversa da quella di Weissman, ma espressa in uno Stato decisamente più severo della Spagna. Al termine della partita Yehezkel fu licenziato in tronco dall’Antalyaspor in quanto il giocatore per il club turco aveva infranto “i valori nazionali”, posizione appoggiata sia dai tifosi che dalla Federazione turca. Non solo. Il giocatore fu arrestato e giudicato dal tribunale di Antalya per incitamento all’odio con tanto di condanna politica del Ministro della Giustizia, secondo cui il giocatore “ha mancato di rispetto ai valori della Turchia, un paese che rimane al fianco del popolo palestinese. Ha offeso la memoria di migliaia di civili, donne e bambini massacrati nel genocidio che lo Stato ebraico sta compiendo”. Per fortuna la via diplomatica ha portato al rilascio di Yehezkel, tornato immediatamente in patria, dove oggi veste la maglia del Maccabi Tel Aviv. E lì lo ha raggiunto anche Eden Karzev, all’epoca giocatore del Basaksehir ‘reo’ di aver postato analogo messaggio di solidarietà agli ostaggi e dunque licenziato su due piedi. Molto più complessa la situazione in Inghilterra, dove trovare un punto di equilibrio si è rivelata impresa ai limiti dell’impossibile. Un caso paradigmatico è quello di Manor Solomon, centrocampista del Tottenham in prestito al Leeds United. Manor in passato ha servito nell’IDF, l’esercito israeliano oggi impegnato su più focolai di guerra. E dopo il 7 Ottobre ha postato una condanna di Hamas accompagnandola a un’analisi politica precisa: “Negli ultimi due giorni il mio Paese, la mia famiglia, i miei amici e la mia amata gente hanno attraversato l'inferno. Hamas non sta facendo nulla a favore del popolo palestinese. Hamas è un'organizzazione terroristica con una sola missione: spazzare via gli ebrei dal pianeta. Sostenerli significa sostenere il terrore, proprio come sostenere Al-Qaeda, Isis e gli attacchi dell'11 settembre. Israele ha il diritto di difendersi! Pregate per Israele”. E di fronte all’imbarazzo e all’indecisione di FA e Premier, in grado di produrre una semplice e generica condanna di tutti i “brutali atti di violenza”, definì “vanilla” i comunicati delle maggiori istituzioni calcistiche inglesi dichiarando a una Tv israeliana: “Tutti sembrano spaventati da ciò che potrebbe accadere loro, e quindi preferiscono non essere coinvolti”. In effetti la FA aveva preso in considerazione l’ipotesi di ‘colorare’ Wembley con la bandiera israeliana in occasione dell’amichevole tra Inghilterra e Australia, così come aveva fatto con i colori ucraini dopo l’invasione russa. Ma alla fine decise che la situazione era troppo controversa per prendere una posizione così netta e abbandonò l’idea. Del resto, che la compagine sociale inglese non fosse monolitica rispetto alla tragedia mediorientale è dimostrato dalla raffica di insulti social anti-israeliani di fronte al passaggio di Solomon al Leeds pochi mesi fa: "Nessun omicida è benvenuto nel mio club", oppure "Chiunque sostenga il trasferimento di un autore di genocidio al Leeds United, non ha morale. Non sei degno di sostenere il LUFC", o ancora “preferirei vedere la squadra retrocessa che veder firmare quel sionista di Solomon”. Offese che hanno prodotto una difesa indignata, dimostrando quanto sia divisiva la questione anche da quelle parti: "I tifosi del Leeds che dicono di non volere Manor Solomon perché è ebreo e proviene da Israele sono una vergogna", concetto ribadito da moltissimi altri post. Il tutto nel seno di una società di origini ebraiche e che negli anni ’60 ha avuto presidenti ebrei come Cussins e Silver. Divisiva e fonte di imbarazzo anche la posizione di Mohamed Elneny, centrocampista egiziano dell’Arsenal, che a commento dei fatti del 7 ottobre postò una bandiera palestinese, l’immagine della moschea di Al-Aqsa e poche chiarissime parole: “My heart, my soul, my support for you Palestine”. E l’Arsenal, piuttosto irritato per l’isolamento in cui le istituzioni calcistiche lasciavano i club inglesi su questa delicatissima tematica, dovette cavarsela con un equilibrismo, tutto sommato anche piuttosto elegante: "qualsiasi dipendente dell'Arsenal e tutti i nostri giocatori hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni sulle proprie piattaforme – il testo del suo comunicato – Detto questo, ne abbiamo parlato con Mo in modo che comprenda le implicazioni più ampie della sua esposizione. Come club, ci impegniamo ad affrontare ed eliminare tutte le forme di discriminazione e continuare a sostenere la necessità di uguaglianza e diversità in tutti i settori della vita quotidiana". Dopodiché ordinò al giocatore di cancellare i post. Ma intanto l’ennesimo sasso nello stagno delle opinioni divisive era stato gettato, al punto da spingere anche un club ufficiale di supporters ebrei dell’Arsenal, il Jewish Gooners a prendere posizione. E dopo aver criticato la FA per il silenzio, sostenendo come sia i tifosi ebrei che quelli musulmani non fossero in alcun modo sostenuti di fronte alla tragedia, si rivolse direttamente a Elneny: “La religione, l’etnia, la cultura sono componenti chiave dell’identità di un individuo e da nessuna parte tutto questo è più pronunciato che in Medio Oriente. Mohammed Elneny è uno dei giocatori preferiti dai tifosi dell’Arsenal, una leggenda egiziana e un orgoglioso musulmano. Il suo sostegno alla causa palestinese è reale e non dovrebbe essere motivo di alcuna critica nei suoi confronti. Tuttavia, Elneny dovrebbe essere consapevole che la bandiera palestinese sventolata ora sui social media è la stessa bandiera che viene sventolata per le strade di Londra e in tutto il Regno Unito, per celebrare l’assassinio di 1.200 ebrei e israeliani. Scegliere questo momento per assumere una posizione così politicizzata e provocatoria, dimostra una mancanza di empatia e di umanità, ed è fonte di grande turbamento per i tifosi ebrei dell’Arsenal, senza dubbio per molti altri”. In estate Elneny è passato all’Al-Jazeera. Il compendio di questa complessità che induce all’equilibrismo è tuttavia Mohamed Salah. L’idolo di Egitto, di gran parte del mondo arabo e del Liverpool aveva scelto il silenzio, dopo lo scoppio della nuova guerra in Medio Oriente. Probabilmente per non alimentare uno sfacelo ideologico che si nutre di fama, propaganda e faziosità. E questo malgrado, in gioventù, avesse eccome preso posizione di fronte alla questione mediorientale. Sì, perché nel 2013, ai tempi del Basilea, si rifiutò di stringere la mano ai giocatori del Maccabi Tel Aviv utilizzando lo stratagemma del 'pugnetto' . Forse anche per questo, dopo il 7 ottobre, Salah fu tirato per la giacca da mezzo mondo, perché la valenza politica di un personaggio tanto esposto mediaticamente impone spesso un dazio da pagare. E così l’attaccante dei Reds ha pubblicato un video sui suoi social, un’esibizione studiata in cui ogni parola è apparsa misurata e scelta con cura: "Non è sempre facile parlare in un periodo come questo, c'è stata troppa violenza e troppa brutalità straziante. Tutte le vite sono sacre e devono essere protette. I massacri devono finire perché le famiglie sono distrutte. Ciò che è chiaro adesso è che gli aiuti umanitari a Gaza devono essere autorizzati immediatamente. Le persone lì versano in condizioni terribili. Gli abitanti di Gaza hanno urgentemente bisogno di cibo, acqua e forniture mediche. Invito i leader mondiali a unirsi per prevenire ulteriori massacri di anime innocenti. L'umanità deve prevalere". Risultato? Tutti scontenti. I palestinesi lo hanno accusato di non aver difeso la loro causa con una chiara condanna dei nemici, gli israeliani hanno preso atto dell’ennesimo messaggio che omette il loro dramma. Salah, cercando l’equilibrio, ha perso centinaia di migliaia di followers e chissà se all’origine della sua decisione di lasciare Liverpool a fine stagione non ci sia anche qualche sciame sismico del terremoto mediorientale. Infine la Germania, Paese dove la lucidità delle istituzioni sembra aver prevalso sull’istinto e sulla rabbia delle due parti in conflitto. Anwar El Ghazi, ala olandese di origini marocchine, si era da poco trasferito al Mainz quando le armi hanno ricominciato a parlare nella regione più martoriata del mondo. E ha seguito il suo istinto usando i social: “Questa non è guerra – il suo post - Quando una parte taglia acqua, cibo ed elettricità all’altra non è guerra. Quando una delle due parti ha armi nucleari non è guerra. Quando una delle due parti utilizza immagini generate dall’Intelligenza artificiale per diffondere disinformazione sull’altra non è guerra. Questo è genocidio, distruzione di massa e noi vi stiamo assistendo in diretta. From the river to the sea, Palestine will be free”. Frase che letteralmente significa: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. E poiché dal Giordano al mare si estende lo Stato di Israele, ai più non è apparso dubbio che El Ghazi stesse inneggiando alla completa distruzione dell’odiato nemico. Molti analisti arabi e occidentali hanno poi spiegato che quell’espressione è storica e negli anni ha modificato la sua accezione originaria per diventare semplicemente l’auspicio per un’autonomia e libertà per i palestinesi di Gaza e Cisgiordania, senza più agganciarsi alla terribile pretesa della cancellazione di Israele. E tuttavia la presa di posizione del giocatore olandese apparve piuttosto brutale e senza troppi fraintendimenti possibili. Tanto che il club tedesco prima lo sospese, poi lo licenziò. El Ghazi fece causa per ingiusto licenziamento e il tribunale di Magonza gli diede ragione obbligando la società a corrispondergli un milione di euro. Il reintegro non fu necessario, perché nel frattempo il giocatore si era accasato al Cardiff. Per certi aspetti ancor più delicato il caso di Mazraoui e Peretz, compagni di squadra al Bayern. Il primo centrocampista marocchino che senza calcio sarebbe diventato avvocato, il secondo portiere israeliano giunto in Baviera nel post Sommer e fidanzato della pop star Noa Kirel. Mazraoui si schierò con i palestinesi: "Dio, aiuta i nostri fratelli oppressi in Palestina a ottenere la vittoria. Possa Dio dare misericordia ai morti, possa Dio guarire i loro feriti". Peretz con il suo popolo: “Io sto con Israele” e contro Hamas, responsabile “di mostruose atrocità”. Il Bayern prese immediatamente in mano la situazione decidendo di non sospendere nessuno, ma credendo nella necessità che i due si confrontassero. Sarebbe stato lo stesso Peretz a rivelare, almeno in parte, il contenuto del colloquio col compagno di squadra: “L'intero club ha risolto il problema in modo molto maturo, ci siamo seduti insieme e abbiamo parlato. Mi ha spiegato come vede le cose, perché ha fatto quello che ha fatto e si è scusato per quello che ha pubblicato". Mazraoui, dopo il chiarimento individuale, ha voluto spiegare il suo pensiero pubblicamente: “Il punto è che io cerco la pace e la giustizia in questo mondo. Ciò significa che sarò sempre contrario a ogni forma di terrorismo, odio e violenza. Ogni giorno persone innocenti vengono uccise in questo terribile conflitto che è fuori controllo. Per questo, bisogna alzare la voce, poiché la situazione è semplicemente disumana. Voglio sottolineare che non è mai stata mia intenzione offendere o ferire consapevolmente o inconsciamente qualcuno”. La chiosa direttamente dal club con un comunicato: “L’FC Bayern e Noussair Mazraoui si oppongono fermamente al trasferimento del conflitto in Medio Oriente e della sua violenza alla Germania, impegnata per la pace. L’odio e la violenza di qualsiasi tipo non trovano posto nella cultura politica tedesca. L’FC Bayern è dalla parte della comunità ebraica in Germania e dalla parte di Israele; nulla giustifica l’omicidio di bambini e famiglie. L’FC Bayern è convinto che il calcio debba sviluppare la sua capacità di equilibrio tra culture diverse, soprattutto nei momenti più difficili”. Mazraoui in effetti non è mai stato messo fuori rosa, anche se in estate ha accettato di buon grado l’offerta del Manchester United in quella che, tuttavia, è apparsa una normale operazione di mercato e non un necessario divorzio tra visioni inconciliabili. E in effetti il punto cruciale è proprio lì, in quell’ultima frase del comunicato del Bayern. Non è vero che il calcio sia una dimensione differente e avulsa dalla politica, ma è proprio per la sua natura politica che dovrebbe sviluppare l’equilibrio tra culture diverse. La verità è che la questione mediorientale è un’enorme sala degli specchi in cui chiunque vi si introduca perde i riferimenti, le misure, la logica. La realtà si riflette mille e mille volte distorcendosi e sfumando ogni confine razionale. Un esempio? Nel pomeriggio di sabato 27 luglio, un missile è caduto su un campo di calcio, dove stavano giocando due squadre di ragazzini. Il missile proveniva dal Libano, ha colpito una cittadina drusa la cui popolazione è di origine siriana, nel territorio del Golan che Israele ha unilateralmente annesso nel 1981. Non è più e forse non è mai stata una realtà bidimensionale con due entità contrapposte, è caos e follia dove i nemici sono molteplici e dove gli amici non si riconoscono. Sono morti 12 ragazzi. Che volevano solo giocare a calcio, incuranti del gioco di specchi che li poneva in una posizione geografica e politica pericolosa. Concetto che vale anche per i tanti bambini palestinesi che frequentavano scuole calcio che non esistono più o che hanno perso la vita senza capirne la ragione. E’ per questo che la Federazione calcistica palestinese già da luglio ha chiesto che la FIFA escluda tutte le squadre israeliane da qualsiasi competizione, avanzando argomenti giuridici e umanitari che configurano un’accusa gravissima: “oltre 41mila palestinesi, tra cui quasi 16.000 bambini, sono stati uccisi dalle forze di occupazione israeliane a Gaza e altri 500 in Cisgiordania. Lo sport e il calcio palestinese sono stati completamente decimati: a Gaza, tutte le infrastrutture calcistiche sono state gravemente danneggiate o interamente distrutte; gli stadi, le hall e le sedi dei club sono stati presi di mira e distrutti. A oggi, sono stati uccisi 231 calciatori, tra cui 66 bambini dell’accademia di calcio”. E il massimo organismo politico-calcistico mondiale ha deciso di…rimandare ogni decisione. Ha sì accolto la richiesta della Federazione palestinese, ma solo per demandare al Consiglio disciplinare interno il compito di analizzare la documentazione legale prodotta e indagare a sua volta sulle possibili discriminazioni da parte israeliana. In sostanza la Fifa prende comprensibilmente tempo, tanto più che nemmeno l’ONU ha una posizione netta sulla vicenda: si sprecano le risoluzioni che invitano alla moderazione, che condannano gli atti più efferati, che vorrebbero porre steccati all’escalation. Ma i veti incrociati e la complessità della situazione ne limitano l’efficacia. Come potrebbe quindi la più alta espressione del calcio, vassalla e riflesso della politica mondiale, adottare una linea che la ponga da una parte della barricata? E intanto la tragedia si srotola in mille rivoli, abbattendosi anche su tutte quelle associazioni umanitarie e sportive che per anni hanno lavorato a Gaza, organizzando tornei con squadre miste di bambini israeliani e palestinesi. Tra questi angeli con le ali spezzate, giusto per fare un esempio, anche Alberto Giacomini, insegnante di educazione fisica di Monza che là era arrivato grazie al progetto Inter Campus: “I bambini all’inizio erano diffidenti, poi con l’andare dei giorni nel campus si creava quella complicità e la solita magia del correre tutti dietro allo stesso pallone. Il problema era che una volta che tornavano nelle rispettive case, la frattura si riapriva. E noi ogni sei mesi eravamo costretti a ricominciare da capo e a ricucire un dialogo che in questo momento purtroppo si è interrotto...”. Sì perché quando si spalancano le porte dell’inferno i falchi soffocano sempre le colombe. E in Medio Oriente è accaduto sistematicamente, basti pensare alla sorte dei protagonisti del Trattato di Oslo, l’ultimo tentativo delle colombe di prendere il volo: l’uccisione del Primo Ministro Rabin, reo di concedere dignità e riconoscimento ai palestinesi e accusato di volere regalare i territori occupati, per mano di un colono israeliano estremista. E la contemporanea marginalizzazione dell’OLP, accusata di complicità col nemico israeliano. E così oggi i mefitici decibel delle bombe e delle parole che le armano prevarica tutto e tutti. L’Iran attacca Israele e l’ayatollah Khamenei definisce “legittima” l’operazione del 7 ottobre, sforzandosi di offrire un’immagine monocromatica della realtà che domina con la forza. Ma anche un regime come l’Iran deve fare i conti con una coscienza sociale che germina dal basso. Per mesi in quel Paese si sono svolte proteste di piazza dopo la morte di Masha Amini, trucidata per non aver indossato correttamente il velo. I giocatori della Nazionale iraniana ai Mondiali non hanno cantato l’inno prendendo una posizione netta e inducendo reazioni uguali e contrarie anche in Patria. Al centro lui, l’idolo locale: Mehdi Taremi. Ancora una volta un simbolo compresso dalla complessità: da una parte paradigma della modernità che difende i diritti, dall’altra esempio di aderenza al regime, per alcuni da esecrare per altre da esaltare. Taremi è stato accusato di incarnare la propaganda del potere assicurandosi privilegi, come quello concesso a tutti gli eroi del pallone di importare in Iran beni di lusso . Ma è anche stato additato come esempio di resistenza di fronte all’oppressione che comprime i diritti umani. C’era lui a orchestrare la presa di posizione della Nazionale a favore dei diritti delle donne. C’era lui in conferenza stampa dopo gli insulti ricevuti durante la partita contro il Kirghizistan: “bisharaf” gli urlavano dagli spalti, un’espressione ostile che potremmo tradurre con “senza onore”, malgrado avesse segnato il gol vittoria. “Non possono chiamarci così!” – la sua reazione. “Altre persone hanno fatto precipitare il Paese in questa situazione economica, non noi calciatori, sportivi, personaggi famosi. So che la situazione economica del Paese è difficile per tutti. Non sono i giocatori a mancare di onore. Non abbiamo rovinato noi l'Iran, il Paese che amiamo. Io so che la situazione è peggiorata per tutti, che la gente è sotto pressione e vuole liberarsi di questa rabbia, ma non è giusto che la protesta si rivolga contro di noi. I giocatori stanno dalla parte del popolo e condividono le profonde lamentele". Nessun accenno, ovviamente, alla questione mediorientale. Ma parole dalla forte valenza politica. E mentre l’Iran lanciava razzi contro Israele, lui in maglia Inter offriva il “cinque” a Omri Glazer, portiere israeliano della Stella Rossa. Un gesto passato quasi inosservato eppure più abbagliante delle deflagrazioni dei missili, almeno agli occhi di chi vuole vedere spiragli di umanità e pace dove il buio pretende di cancellare ogni cosa. I veri nemici sono sempre in casa, spesso dentro di noi. E allora forse bisognerebbe lasciar fare ai fratelli Jaber, arabi d’Israele ed entrambi calciatori: Abdallah, il maggiore, in squadre e nella Nazionale palestinese, Mahamud, il più giovane, nel Maccabi Haifa e nella Nazionale israeliana. “Se tifo per lui? - ha detto il primo del secondo - Che domanda, lo amo. Sono pronto a sacrificare qualsiasi cosa per lui”. Sarebbe un sogno se diventassero l’incarnazione di un precetto religioso universalmente noto: “Nessuno di voi ha fede finché non ama per il proprio prossimo ciò che ama per sé stesso” , “ama il prossimo tuo come te stesso” . In fondo è proprio il prossimo l’unico valore che ci resta. Nihil inimico quam sibe ipse.

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