Nella testa di un giocatore quando si fa male

Me lo ricordo bene quell’infortunio. Ma mi ricordo ancora di più quando mi hanno detto che si trattava proprio della rottura del crociato. Era il 2016, Italia-Spagna, più o meno in questo periodo: il 7 ottobre ero andato a fare gli esami dopo uno scontro durissimo contro Sergio Ramos. In campo non avevo capito molto, sentivo un dolore tremendo ma pensavo fosse solo per la botta. Onestamente non pensavo fosse una cosa grave, per quanto di sicuro seria. La vera botta è arrivata dopo gli esami: quasi come se mi fosse crollato il mondo addosso. Perché avevo 31 anni, e posso garantire che a un calciatore quando viene detto che si è rotto il crociato diventa quasi come vivere un incubo. Parto da lontano. Un giocatore lo sa: con un infortunio così, il ginocchio non torna comunque mai come prima. Se sei giovane, temi che la tua carriera possa essere compromessa. Se sei più avanti con l’età, temi che sia proprio finita. Per fortuna non ho voluto mollare, ma posso garantire che il trauma psicologico c’è stato eccome. Anche perché nel 2014 mi ero fratturato la tibia e di nuovo ero dovuto rimanere fermo per circa sei mesi. Solo che una frattura, per quanto grave, lunga e dolorosa, è diversa dal crociato: la gamba torna a posto e lo sai, il ginocchio no, è tutta un’altra storia. Devi sottoporti a un’operazione molto delicata, devi fare un lavoro di fisioterapia davvero impegnativo. Devi tornare a giocare senza preoccupazioni, che è la cosa più complicata di tutte. Ti viene detto subito: una volta considerato ristabilito, per anni devi comunque continuare a seguire una tabella di lavoro specifica per mantenere il giusto tono muscolare a protezione dell’articolazione. Ti sembra quasi che il tuo corpo ti tradisca: fai affidamento su di lui, quando dovrebbe invece non riesce a proteggerti. È stata quella la cosa più pesante da digerire. Insieme a una serie di scelte difficili. La prima, il tipo di operazione da fare. Il mio infortunio non era ‘solo’ una lesione al crociato, ma aveva interessato anche altre parti dell’articolazione. Per questo mi era stato prospettato un intervento diverso, al quale ho deciso di sottopormi: il metodo si chiama Allograft e prevede l’impiego di un tendine di un donatore, per andare a ricostruire quello che si è rotto. Devi quindi capire chi ti opera, dove ti opera, quanto tempo dura l’operazione. E non hai molto tempo per pensare, perché poi deve cominciare il percorso riabilitativo per non restare troppo fermo. Percorso doloroso? Anche, ma non troppo. Per mia fortuna, non ho avuto complicazioni fisiche durante la fisioterapia. I momenti più duri sono stati tutti nella mia testa: quando temi di non recuperare, quando non vedi la luce. Dal punto di vista sportivo questo è un dramma, perché devi ritrovare un corpo che a un certo punto non sembra più del tutto il tuo. Anche perché un conto è la riabilitazione, dove segui ogni movimento passo passo: sei concentrato, agisci lentamente, con metodo. Ma poi c’è il campo. In partita non hai tempo di pensare a come sposti la gamba, a come punti il piede o metti il ginocchio. Hai la testa verso l’avversario, la giocata, a come stoppare il pallone e a cosa fare. Immediatezza, rapidità: tutte cose che con il post operatorio c’entrano veramente poco. Ed è quel pensiero che mi ha fatto temere. Se poi si aggiunge che era ricapitato alla gamba sinistra ... insomma, è stato pesante. Ma il sostegno è stato molto. Uscirne, se ne esce. Ci vuole tanta pazienza, tanta convinzione e un ottimo lavoro di squadra con lo staff medico del club e il chirurgo che ti opera. Ma devi essere convinto che la tua carriera non rimanga compromessa, anche se in un modo o nell’altro dovrai conviverci sempre. Testa, prima ancora che corpo: è tutto lì.