La Nazionale sparita

C’era una volta la Nazionale. Quella che generalmente si scrive con la N maiuscola. La Nazionale di calcio. Fortunamente sono arrivate le Olimpiadi a portare gli italiani che amano lo sport ad appassionarsi a vicende di altri atleti, meno celebri ma molti più vincenti, di sicuro più determinati. Bene così. Però il naufragio europeo degli azzurri di Spalletti è stato non una semplice parentesi estiva da chiudere in fretta, ma l’ennesima testimonianza di fallimento di un sistema che ormai da tempo non funziona. Le vaghe riflessioni sulle cause di questa crisi stavolta sono durate come un gatto in tangenziale, ancora meno cioè che dopo le ultime due, persino più dolorose, esclusioni dai Mondiali. Si sono spente in meno di una settimana, senza che una sola decisione di cambiamento sia stata presa dagli organismi competenti, senza che una sola riforma sia stata messa in cantiere, senza che un solo responsabile del disastro abbia avuto la sensibilità di presentare le dimissioni, magari anche giusto per vedersele respinte. Di più. Complice un frettoloso decreto governativo, tutte le discussioni a livello di Federcalcio e Leghe, anziché essere tese ad approfondire le ragioni della lunga catena di risultati negativi e delle difficoltà incontrate da tutti i commissari tecnici che si sono succeduti negli ultimi 15 anni, sono ritornate a ruotare intorno all’argomento prediletto dai dirigenti federali e leghisti: come contare di più, come conservare le proprie poltrone e poltroncine, come cambiare tutto per non cambiare niente. Intendiamoci, che il peso della Serie A negli organismi e nei meccanismi decisionali della Ferdecalcio sia troppo basso è un fatto indiscutibile. Ma era proprio questa la materia più urgente sulla quale intervenire? Che c’entra tutto ciò con le difficoltà della Nazionale? Domande peraltro da rivolgere anche, se non soprattutto, al mondo della politica, per una volta giustamente attivo e propositivo, ma puntando un bersaglio sbagliato. Una riforma strutturale della Federcalcio è certamente necessaria. Magari con l’obiettivo di trasformarla da insieme corporativo di componenti e Leghe a vero cuore pulsante del sistema calcio italiano, dando voce al suo interno anche ad appassionati e portatori di interessi. E invece così nei prossimi mesi assisteremo a una serie ininterrotta di litigi sulla suddivisione delle percentuali, con un’altissima probabilità che non si giunga a un accordo e quindi alle elezioni, peraltro già rinviate, del presidente, ma si arrivi a un commissariamento della Federazione stessa. Tutto tempo perso. A parlare di politica politicante, di equilibri di potere, di voti a rendere. E mai di calcio. Quando invece si dovrebbero mettere in campo idee e provvedimenti efficaci per porre le fondamenta sulle quali ricostruire nazionali competitive. Non è vero che contro l’invasione degli stranieri e l’inaridirsi dei settori giovanili non sia possibile fare niente. Se non è praticabile, anche per via della legislazione comunitaria, la strada di agire attraverso anacronistici divieti, si possono però studiare incentivi per investimenti nei vivai e premiare il maggiore impiego di giovani italiani. E ancora: servirebbero appositi corsi di specializzazione per tecnici destinati alla formazione di bambini, ragazzi e adolescenti. Si potrebbe poi riprendere il progetto dei Centri tecnici federali territoriali, varato dai commissari Figc dopo l’eliminazione da Russia 2018 ma poi lasciato cadere durante la gestione Gravina, un modello che ha ottenuto risultati eccellenti in Francia e Belgio e ottimi in altri Paesi europei. E magari studiare, come in Inghilterra, un blocco degli ingaggi di calciatori extracomunitari che non abbiano un curriculum internazionale di altissimo livello. Senza parlare dei 2,5 miliardi di sterline investiti in dodici anni da Football Association e Premier League proprio per lo sviluppo strutturale e infrastrutturale dei settori giovanili e finanziati da un prelievo del 4% su tutti i trasferimenti di mercato. Pare che il ministro dello Sport Abodi stia lavorando a una riforma della legge Melandri, quella che stabilisce la ripartizione dei diritti televisivi. Ottima decisione. Che però dovrebbe svilupparsi non soltanto attraverso una riflessione ristretta agli uffici del ministero, ma dopo una discussione aperta con tutti gli interessati, che coinvolga magari anche i tifosi abbonati e gli altri stakeholder, emittenti televisive e piattaforme OTT comprese. Questa legge può diventare uno strumento essenziale per garantire quegli incentivi necessari a difendersi dall’invasione straniera. Un esempio. Dal girone di ritorno della scorsa stagione una parte dei diritti Tv viene distribuita in base proprio all’impiego dei giovani in campionato. Ma si stratta dell’1,1% del totale. Per cui il club che ne ha utilizzati di più ha ottenuto da questa voce soltanto 1 milione e 200 mila euro. Ovvio che questa quota vada alzata e magari con premi maggiori se i giovani impiegati sono italiani. Così come si potrebbe destinare un’altra fetta dei diritti tv alle società che hanno settori giovanili di maggiore qualità, secondo criteri di valutazione già in uso in altri Paesi europei. Tutte proposte e opportunità concrete di cui però non si parla. Perché bisogna dare i numeri, cioè battersi per le percentuali utili a mantenere piccole consorterie calcistiche, diritti di veto e maggioranze che permettano di ottenere un’elezione o magari una ri-elezione. La Nazionale può attendere.

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