Matti per il calcio: la storia della Nazionale ‘Crazy for Football’

“Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita!”, scriveva Alda Merini, la poetessa dei Navigli cresciuta fra l’inquietudine esistenziale e la depressione, fra gli ospedali psichiatrici e l’indigenza. “Ero matta in mezzo ai matti, ma i veri matti non vivevano nel manicomio, ma erano al di là del muro al di là dei cancelli…”. E forse aveva ragione lei, tutto sommato, così attenta nell’osservare questo nostro correre disordinato, come di particelle impazzite in cerca di una via d’uscita da tutto questo caos che ci annienta e ci toglie l’ossigeno. Così graffiante nel dipingere con i suoi versi questa vita che ci scappa fra le dita e della quale troppo spesso non abbiamo coscienza. Proprio come dei dementi, individui privi di senno, neppure meritevoli di compatimento, che ci trasciniamo da un anno all’altro della nostra esistenza ogni giorni più alienati, ogni giorno più alieni, padri padroni dei nostri miseri pianeti, ritenendoci migliori di qualunque altro essere umano nelle nostre città-trappola, al punto da non accorgerci neanche di quel che di buono esiste al di fuori di noi, non lontano da noi, di quel che ci accade a un centimetro di distanza. Laddove c’è chi lotta contro i nemici invisibili della mente per riaccendere la scintilla del desiderio di vivere in chi si è lasciato andare e passivamente attende il suo Godot, qualcosa che dà sempre l’idea di essere nell’imminenza di accadere ma che in realtà non accadrà mai. C’è un medico a Roma. Si chiama Santo Rullo. E’ uno psichiatra. Il suo curriculum è lungo una decina di pagine. Lavora da anni nel sociale e combatte la solitudine dei soli. Probabilmente convinto anch’egli che i dementi, quelli veri, siano fuori dai cancelli delle strutture che accolgono pazienti con emergenze comportamentali non così gravi al punto di non meritare attenzione. Trent’anni fa ha pensato di mettere tra i piedi degli ‘ospiti’ delle strutture private e pubbliche di tutta Italia un pallone. Sempre meglio che lasciarli seduti a fissare il vuoto o a rincorrere i propri fantasmi. Poi ha pensato di allargare il progetto e creare una squadra di calcio con i pazienti più reattivi, più portati, più collaborativi. Infine, ha iniziato a selezionare i migliori in giro per il Paese e - chiesto aiuto a un ex giocatore di calcio a 5, diventato istruttore e allenatore, Enrico Zanchini - ha trasformato quella idea in una vera e propria Nazionale di calcio a 5 per persone con problemi di salute mentale, entrando in grande empatia con i suoi ‘giocatori’ e ottenendo risultati a dir poco eccezionali. Sulle prime il disegno di Rullo e Zanchini venne preso per una follìa. Il che - visto l’argomento - poteva anche starci. Poi, dopo iniziale diffidenza dei più, ha preso piede e il programma è diventato qualcosa di solido con prospettive a lunga scadenza. E quel po’ di vita che il pallone ridava a pazienti che si erano lasciati andare è diventato il simbolo di una rinascita, di una autentica resurrezione, di un vero e proprio riscatto anche sociale per molti di essi. E quei sogni frantumati dalla malattia hanno ripreso vita. E se di matti si trattava, matti per il calcio sarebbero stati. La Nazionale ‘Crazy for Football’ è nata così. E nel gennaio del 2016 ha deciso di diventare adulta e fare le cose sul serio, intensificare le selezioni e prepararsi addirittura ai mondiali di categoria di Osaka in Giappone. Con un risultato lusinghiero, il terzo posto, e il diritto di organizzare nel 2018 il campionato iridato a Roma. La ‘Dream World Cup’. Vinta. In nome di una integrazione possibile fra patologie differenti, costrette a comunicare e non a isolarsi, obbligate a rivelarsi e non a nascondersi, uomini non più invisibili ma ben distinguibili per caratteristiche e peculiarità, con le stesse dinamiche e gli stessi atteggiamenti degli atleti ‘normali’. Mentre loro, a detta dei loro stessi tecnici sono ritenuti ‘presunti normali’, ma di presunto non hanno nulla: non la motivazione, non la rabbia agonistica, non la voglia di far bene, non l’entusiasmo. E soprattutto non l’orgoglio di indossare una maglia azzurra e canticchiare l’inno nazionale. Agli ultimi Europei, a Roma, in squadra c’era chi proveniva da una comunità di recupero dalle tossicodipendenze e dalle disabilità mentali e tre migranti, fra i quali anche un giovane ghanese arrivato in barcone. La Commissione Europea ha finanziato l’evento e il Comune di Roma ha ospitato le rappresentative: 12 nazionali per 150 atleti, con tanto di patrocinio del Coni e della medaglia della Presidenza della Repubblica. E anche la ‘Dream Euro Cup’ è finita in Italia. I ragazzi di Rullo e Zanchini hanno fatto meglio di quelli di Luciano Spalletti, aggiudicandosi la prima edizione del campionato continentale di fùtsal dedicato alla salute mentale, battendo in finale l’Ungheria per 3-2, al Palazzetto dello Sport di Roma. Un successo che rappresenta molto di più di una semplice vittoria sportiva, una vittoria che non è uno sconto, non è un’affermazione buonista, non è un aggiramento di quella mancata applicazione di misure sostitutive alla chiusura dei manicomi avvenuta nel 1978, con la Legge Basaglia mai applicata o male applicata o applicata in ritardo dalle Regioni. Una missione che sposa un programma terapeutico e lo trasforma in una competizione agonistica vera, con tecnici federali, atleti autentici e grande visibilità anche e soprattutto all’importanza dello sport in chiave riabilitativa. Laddove inclusione e speranza incontrano il calcio. E il calcio per un po’ tiene lontani i momenti difficili, allontana i problemi, attenua i disagi. E dando calci al pallone a volte si danno calci anche ai fantasmi e alle paure, si ottengono le attenzioni desiderate senza bisogno di compiere gesti di autolesionismo per procurarsene, si impara da soli a cercare di rientrare in quelle regole che in campo rendono tutti uguali e che invece la schizofrenia rende così insopportabili. Ogni giocatore viene trattato come un atleta vero, ma ogni atleta ha fuori dal campo un suo percorso psicologico, psichiatrico o farmacologico da seguire. Ci sono bipolari, depressi, schizofrenici, alcuni hanno tutte e tre le patologie assieme. Nel mondo ci sono quasi 500 milioni di sofferenti psichici. Lo sport offre nuovi orizzonti per guardare avanti. Chi non lo comprende è un mentecatto. E i mentecatti, come diceva Alda Merini, stanno al di qua del muro. E non comprendono che “anche la follia merita i suoi applausi”. Soprattutto quando va in campo e sa sconfiggere gli avversari e un po’ sé stessa…